Sono nato a Milano in via Cimarosa a due passi da corso Vercelli.Fra i primi ricordi d’infanzia un trenino a vapore diretto a Magenta. Si chiamava Gambadelegn,un ironico appellativo milanese per indicare la sua andatura lenta e forse un po’ sghimbescia.
La figura di riferimento più importante per la mia infanzia è stata la nonna Fanny, nonna materna: giornalista, scrittrice, fantastica affabulatrice.
Elementari, medie, liceo classico ed è subito il ‘68.
In quegli anni niente guerriglia urbana, facevo un po’ lo studente, un po’ il nuotatore, un po’ il batterista. Ho partecipato anche, con un gruppo, al festival studentesco di Milano.
I batteristi, si sa, frequentano i chitarristi e a volte imparano, da autodidatti, a suonare la chitarra.
Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Paolo Conte, i miei modelli.
Ma non posso dimenticare Dario Fo: quanti pomeriggi passati alla Palazzina Liberty ad assistere alle prove.
Chitarrista, cantante, cabarettista prima per gli amici, poi anche per il pubblico. A 19 anni, esco di casa per provare a vivere di teatro, di cabaret, di canzoni.
Tanti provini, qualche tv privata, qualche comparsata in un film.
Poi l’incontro con un grande personaggio, Giovanni Spadolini, allora direttore del Corriere della Sera, per tentare la carriera di giornalista.
Fu lui che mi indicò la strada: “hai fatto l’attore…potresti insegnare a parlare in pubblico…qui, in Italia, ce n’è tanto bisogno. In America si studia la retorica, si fanno esami all’università, qui ancora ognuno si improvvisa…i politici…gli imprenditori…vedrai, insegnare a parlare in pubblico a queste persone diventerà una professione anche qui da noi”.
La gavetta è stata durissima. Quando mi proponevo agli imprenditori per migliorare la loro comunicazione mi prendevano per un tecnico della Sip, oggi Tim! Poi, giovanissimo, ho creato una società e mi sono messo sul mercato.
A 30 ero il segretario generale della Ferpi, la Federazione relazioni pubbliche italiana, a 35 ne ero il presidente, e nel frattempo, continuavo a studiare.
Avevo sempre in mente le parole di Giovanni Spadolini.
Ho così deciso di andare di nuovo a imparare da chi queste tecniche le aveva inventate. E allora via, con quelle quattro parole di inglese imparate a scuola, a seguire i corsi di Paul Watzlawick, Tom Peters, Deepak Chopra, John Grinder, Richard Bandler, Robert Dilts, Anthony Robbins, Paul McKenna, Kenneth Blanchard.
Ma non dimentico i miei due grandi maestri italiani, così diversi, ma così utili alla mia formazione: Silvio Ceccato artista prestato alla cibernetica e Mario Silvano un vero mago della formazione nel settore commerciale.
Oggi, faccio i conti un po’ a spanne e posso dire di aver avuto circa 200mila allievi, alcuni dei quali, a loro volta, sono diventati ottimi docenti.
Sono consulente e formatore presso aziende ed enti pubblici, su competenze e abilità nel settore della comunicazione.
La mia attività abbraccia i più svariati settori: dall’industria alla pubblica amministrazione, dal turismo all’enogastronomia.
Sono Licensed Trainer in Programmazione Neurolinguistica, nominato direttamente da John Grinder e Richard Bandler creatori della materia.
I miei libri più recenti:
Durante il lockdown della primavera 2020 ho creato con Luca Cattoi, ComunicoGG, una WebTv nella quale intervisto “persone normali che hanno da raccontare storie speciali”.
Le interviste sono in diretta su Facebook, Linkedin e YouTube ogni mercoledì alle 13 e rimangono sugli stessi social per essere viste in differita.
La ragione rende più dell’aggressione. Ne sono stato convinto fin da piccolo, e infatti sono stato uno dei pochi bambini che non si è mai picchiato con un altro. Non ho mai sopportato chi alzava le mani, e forse non ho neanche mai avuto bisogno di farlo. Oggi la cultura televisiva ci propina invece personaggi volgari e schiamazzanti che vengono perfino alle mani in diretta. Parlare male della televisione in questi anni è un po’ come sparare sulla Croce Rossa, ma gli episodi di intolleranza verbale e addirittura di aggressione fisica sono veramente quanto di più orribile si possa mostrare alla gente.
Intendiamoci, non aggredire non vuol dire sottomettersi agli altri. Vuol dire usare la gentilezza e la cortesia anche per far comprendere le nostre ragioni. Purtroppo la nostra cultura ci porta facilmente a individuare dei nemici. Non ci schieriamo con, ci schieriamo contro. Questa è una cultura tribale e arcaica. Il capo tribù, nelle civiltà più antiche, individuava un nemico quando pensava di perdere potere sulla propria gente. È normale, infatti, che le persone si coalizzino contro un pericolo esterno. Questa cultura, oggi anacronistica, è rimasta nelle nostre teste, ma forse più che altro nel nostro sangue.
Non votiamo l’Ulivo, votiamo contro Berlusconi; non votiamo il Polo, siamo anticomunisti. Forse il male principale sta proprio in questa violenza aggressiva che ci impedisce di cedere il posto a una signora o a un anziano su un mezzo pubblico, perché ci sentiamo ridicoli. Certo, forse, per alcuni anni l’aggressività ha fatto audience nei talk show; tuttavia, se i politici nelle interviste non facessero proclami, ma usassero il tono e il metodo della conversazione, si facessero capire, forse sarebbe tutto più chiaro. Credo che negli anni a venire il mondo dovrà essere più mite poiché il miglioramento delle condizioni economico-sociali di massa porterà a un miglioramento dei rapporti umani. Dovremo però sforzarci di aiutare i nuovi deboli: gli immigrati, gli anziani, i bambini e tutti gli sconfitti che vivono nella nostra società. La tradizione teatrale inglese ricorda che durante una rappresentazione, un attore, ripetutamente fischiato e aggredito dal pubblico fu addirittura bersagliato con arance. Con grande flemma, afferrata un’arancia, l’attore la sbucciò e iniziò a mangiarla spicchio per spicchio. La scena risultò talmente comica da far sbollire l’ira e provocare un applauso.
La civiltà domina il pericoloso desidero di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo,e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata. Sigmund Freud
L’Umanesimo storico raggiunge la sua maturità nel corso del XV secolo e approda nel Rinascimento. Il disprezzo per la cultura medioevale e la necessità di un rinnovamento fanno sì che l’uomo rivaluti la propria possibilità di compre n d e re e di trasformare il mondo. L’Umanesimo nasce in Italia. Potrebbe rinascere nel terzo millennio un movimento di questo genere? Credo proprio di sì. Il mondo, infatti, sta cambiando sempre più rapidamente, lasciandoci intuire un futuro ben diverso dai decenni che hanno caratterizzato la fine dello scorso millennio. Molti aspetti tipici della nostra cultura di quegli anni si vanno svuotando e vengono via via abbandonati; pensiamo all’onnipresente manager, una specie di superman in abito grigio che sociologicamente incarnava quell’ideale di efficientismo, supertecnicismo e successo che, secondo i più, a partire dalla vita professionale avrebbe dovuto progressivamente permeare ogni aspetto della vita quotidiana, dalla politica alla cultura, dallo spettacolo al sociale. Tramontato l’ entusiastico yuppismo, e crollati i miti della società dell’immagine, oggi ci troviamo con una fortissima e impellente ricerca di nuovi valori, quali l’onestà, la verità, la solidarietà. Questa tendenza ci impone la necessità di tornare a umanizzare i ruoli in tutti gli aspetti della nostra vita, riportando l’uomo al centro del sistema. Non è certo un’idea nuova, ma rimane un concetto forte che oggi può aiutarci a superare l’attuale crisi di valori individuali e di ideologie collettive. L’apparato non può essere sopra a tutto e prima di tutto, perché ciò costituisce solo una spersonalizzazione, uno stratagemma ideato per sfumare i ruoli, favorire le coperture e rendere difficile l’attribuzione delle responsabilità. I mali che ha prodotto questo sistema sono stati purtroppo ben visibili agli occhi di tutti! A questo punto appare chiaro che il protagonista assoluto torna ad essere l’uomo, inteso come individuo che ha veramente qualcosa da dire e un ruolo da giocare. La persona, in sintesi, che, grazie alle sue qualità, riesce a meritarsi la fiducia e il rispetto degli altri. Credo che negli anni a venire, l’Essere vincerà definitivamente la sua battaglia sull’Avere.
Se hai un problema che deve essere risolto da una burocrazia, ti conviene cambiare problema. Arthur Bloch
Un sorriso non costa nulla ma vale molto. Arricchisce chi lo riceve e chi lo dona. Non dura che un istante, ma il suo ricordo è talora eterno. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno. Nessuno è così povero da non poterlo dare. In casa porta felicità. Nelle fatica infonde coraggio. Un sorriso è segno di amicizia. Un bene che non si può comperare, ma solo donare. Se voi incontrerete chi un sorriso non vi sa dare donatelo voi perché nessuno ha tanto bisogno di sorriso come colui che ad altri darlo non sa.
(P. Faber)
La cortesia è il miglior biglietto da visita che esista. E qual è miglior cortesia di accogliere qualcuno sorridendo? Purtroppo, quasi ogni giorno, nei nostri uffici, o sull’ascensore di casa, qualcuno perfino dentro casa, se ne dimentica, dando per scontata la presenza altrui. Purtroppo, siamo passati da “mi farebbe per favore un caffè” a “Caffè”. E questo ha peggiorato, notevolmente, la qualità della nostra vita. Parliamo tanto di qualità, nelle aziende è così di moda la certificazione ISO 9000 e seguenti, ma c’è miglior qualità della qualità dei rapporti umani? Non credo. Credo che molto uomini rinuncerebbero in realtà a un po’ di denaro, pur di migliorare i rapporti con i loro simili. Pur di vivere in un ambiente sereno dove gli altri sono felici del lavoro che fanno, del posto che occupano nell’organizzazione, e ricambiano il nostro sorriso. Invece, siamo in un epoca in cui, nelle aziende paludate e verticistiche, dirigenti seriosi pensano che ridere o sorridere possa danneggiare la loro leadership. Mi sembra la banca di Mary Poppins, dove i banchieri, di padre in figlio, vestivano il tight e non potevano ridere mai, perché “in banca non si ride”.
È molto bello ciò che scrive Jacopo Fo. “Una serie di ricerche compiute negli ultimi anni ha dimostrato che ridere è rilassante e ottimo contro lo stress. Ridere provoca una serie di reazione biochimiche che favoriscono il sistema immunitario. In particolar modo nei bambini piccoli, il riso è un fattore importante nella sollecitazione della crescita. Una cura di film comici e barzellette può guarire anche malati dati per spacciati (o comunque li fa morire più allegri). Ridere è ottimo per i disturbi sessuali ed è un potente afrodisiaco. Ridere è infettivo.”
Un ultimo consigli quando uscite di casa e incontrate qualcuno, salutatelo. Non come si fa normalmente. Con un bel sorriso e uno squillante “Buon giorno!” Vedrete che ha del miracoloso. In pochi mesi vi sarete fatti un sacco di amici.
Negli affari, che cosa avviene prima? La prepotenza; che cosa secondo e terzo? La prepotenza; eppure la prepotenza è figlia dell’ignoranza e della viltà. Francesco Bacone
Lo scrittore Antoine de Saint-Exupéry disse: “Non ho il diritto di dire o di far qualcosa che sminuisca un uomo di fronte a se stesso. Il problema non è quel che io penso di lui, ma quel che lui pensa di se stesso. Offendere un uomo nella sua dignità è un crimine”.
Demoralizzare significa distruggere una speranza. E qualunque uomo, anche il più piccolo o il più pessimista, ha un sogno, una speranza. Quest’uomo ha il diritto di non incontrare mai nella vita qualcuno che distrugga il suo sogno. Quante volte abbiamo sentito dire a un dirigente “lasci fare a me che ho esperienza” o addirittura frasi peggiori come “di lei non mi fido” oppure “lei non ce la farà mai”. Questo è ciarpame del secolo scorso e non può più essere usato. Dobbiamo abbandonare per sempre questa cultura militaresca, un atteggiamento che rivela insicurezza e mancanza di risore, controproducente anche per chi lo mette in atto. Questo atteggiamento danneggia entrambe le controparti. Quindi è inutile. Abbiamo già detto altrove che la qualità della vita è essenzialmente qualità dei rapporti umani e, quindi, dobbiamo ricordarci che una lavata di capo data anche giustamente di fronte ai colleghi può causare risentimento per anni. E invece ci troviamo davanti a persone che per dimostrare il loro potere continuano a usare frasi del tipo “Fai questo, fai quello, non far questo, non far quello”.
Se pensiamo che con questo tipo di approccio, a volte totalmente devastante e paralizzante, una persona apprenda , siamo realmente fuori strada. È solo con l’esempio e con una garbata correzione dell’errore che possiamo dar modo alle persone di apprendere ciò che devono. Elogiando, non rischieremo mai di demoralizzare, e potremo comunque aprire un dialogo molto importante. Tutti gli allevatori di cani e gli addestratori di animali in genere sanno che cos’è il “rinforzo attivo”. È quel biscotto o quel bocconcino prelibato che si dà al cane quando esegue correttamente un esercizio. Il rinforzo attivo vale migliaia di volte di più di quello passivo, rappresentato dalla punizione o peggio ancora dalle percosse. Un animale percosso reagisce facilmente mordendo, mentre un animale incoraggiato attraverso il meccanismo dei premi reagisce con entusiasmo e riprova con nuovo vigore, poiché, come insegna Pavlov, l’atto si congiunge al premio nel suo cervello. Se lo facciamo per gli animali, figuriamoci se non dobbiamo farlo per gli esseri umani. A volte sembra proprio che l’importante per noi sia scaricare sul tapino di turno il nostro nervosismo e le nostre frustrazioni.
Io sono dell’opinione che la psiche sia la cosa più potente del mondo. Essa, anzi, è la madre di tutte le cose umane, dalla cultura alla guerra. Carl Gustav Jung
A questo punto il lettore si aspetterà un capitoletto un po’ moralista e una lezioncina del tipo “l’egoismo va combattuto è un grave difetto” e altre banalità del genere. No, ho intenzione di parlare di egoismo in modo positivo. Lo spunto è un vecchio libro di Fernando Savater, filosofo spagnolo, dal titolo “Etica per un figlio”. In questo libro il filosofo parla a suo figlio del bene e del male con passione e con humor. La moralità, secondo il filosofo spagnolo, è caratterizzata da autonomia, da capacità di non sottomettersi, da amore di sé, nel senso migliore del termine. E che cos’è l’amore di sé se non un moderato egoismo? Citando i filosofi antichi e moderni da Aristotele a Fromm, Savater consiglia di vivere bene, perché questa è la missione dell’uomo sulla terra. Il vero egoista è colui che tratta bene il prossimo per essere trattato bene, è colui che sa dare amore al fine di ricevere amore, è colui che non ha rimorsi perché sta bene con se stesso. La persona da condannare veramente non è questo egoista buono, che fa del bene per riceverne, quanto l’egocentrico. L’egocentrico è in netta contraddizione con il mio concetto di comunicazione. Infatti, se è vero che comunicare è mettere al centro dell’attenzione l’interlocutore, l’egocentrico non saprà mai c o m u n i c a re, poiché non riuscirà a spostare se stesso dal centro della propria attenzione. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, le persone che hanno raggiunto certi livelli sono egocentriche. Esse amano l’applauso, lo zelo, amano essere servite e coccolate e trovano sempre uno stuolo di lacchè pronti a farlo. Questo comportamento non ha nulla a che vedere con il sano egoismo di cui abbiamo parlato, è molto, molto differente perché porta a sopraffare gli altri, a non ascoltarli e a entrare costantemente in competizione. L’egocentrico desidera porsi al di sopra degli altri, crede sempre di essere il sole intorno al quale i pianeti devono ruotare. Desidera possedere le persone, controllarle e manovrarle come più gli piace e lo farà con gli amici, la moglie, i figli, i dipendenti e qualunque altro essere vivente gli si trovi attorno. Tuttavia questo suo comportamento non gli permetterà di vivere bene. L’egocentrico non è un egoista, dice Savater, è un imbecille, perché rovinando la vita altrui rovina la propria. Limitando la libertà degli altri limita la propria, rendendo gli altri schiavi fa schiavo se stesso. Ciò che, invece, dobbiamo imparare, con moderato egoismo, è scegliere ciò che ci migliora, che ci apre agli altri, che ci fa fare nuove esperienze, che ci dà modi diversi per essere felici. Ho sempre creduto nell’autorealizzazione del fato. Questo è il sano egoismo. Essere ottimisti, guardare avanti, non avere paura e non porsi alcun limite. Ogni mattina, alzandosi dal letto, il nostro moderato egoista potrà guardarsi allo specchio con simpatia e dirsi: “Abbi fiducia!”
Addio, amico lettore, cerca di non passare la vita nell’odio e nella paura. Stendhal
All’inizio degli anni ’90, in un periodo di recessione, ho deciso di prendere sul serio la formazione. Avevo già svolto questa attività in anni remoti, ma in modo molto saltuario. Mi chiamava qualche scuola e andavo a portare una testimonianza. Tutto lì. Dagli anni ’90, invece, ho provato a insegnare qualcosa agli altri in modo serio. Direi quasi a sistematizzare il mio sapere per poterlo trasferire in modo efficace. Iniziato per gioco, questo lavoro si è rivelato ricco di soddisfazioni, sia morali che economiche. Non c’è nulla di più facile che instaurare la spirale virtuosa della formazione. Senza copyright, senza diritti, con la più grande “libertà”. Infatti, la proprietà delle idee è di per sé una follia. Il trasferimento delle idee è la cosa più bella, geniale, democratica che gli uomini possano aver inventato. È l’esatto contrario di quanto veniva fatto dai frati amanuensi nel medioevo. La cultura veniva negata al volgo, perché forma di potere. Invece cosa c’è di più bello della libera circolazione delle informazioni? Se io ho un orologio e qualcuno me lo ruba, io non avrò mai più l’orologio e quel qualcuno avrà il mio! Ma se qualcuno mi ruba un’idea? L’avremo tutti e due e poi quattro, e poi otto, e poi sedici, e poi trentadue, in modo esponenziale. Credo proprio che questo sia un modo per lasciare un mattone, un piccolo segno del proprio passaggio su questa terra. Un po’ come scrivere un libro. Chi insegna con gioia, si prende cura di qualcun altro e smette di vivere solo per sé. Insegnare vuol dire aiutare a imparare. Questo ci porterà enormi benefici, perché per formare bisogna studiare, studiare per tutta la vita per rinnovare e aggiornare continuamente ciò che si dona agli altri.
La politica è l’unica professione senza una specifica formazione. I risultati sono di conseguenza. Carlo Maria Martini
L’azienda e il mondo della comunicazione in particolare , dovrà abbandonare definitivamente la sua cultura da reggimento di fanteria, fatta di gerarchie e di simbologie. Espressioni quali task force, campagne di vendita, aggredire il me rcato, andare alla conquista di nuovi clienti, sono tipiche di un concetto del marketing che ha distrutto le relazioni interpersonali attraverso un approccio strumentale al mercato. Come il colonialismo, anche questa cultura origina odiose forme di razzismo. Oggi è inevitabile, per chiunque operi nella società contemporanea, affrontare il problema delle relazioni. Si dovrà passare dal comunicare “a qualcuno” al comunicare “con qualcuno”. Credo che il salto di qualità sia un ritorno alle relazioni umane basate sulla reciproca credibilità e sui reciproci scambi di conoscenza. Il tempo in cui le aziende e i loro vertici ritenevano che la comunicazione si risolvesse nel “comunicare a” ritengo sia finito per sempre. Questo non tanto perché vi sia una maggiore democrazia economica, quanto perché le regole del consenso riguardano ormai tutti e impongono di dialogare con crescente chiarezza con persone sempre più mature. I concetti di target, di opinione pubblica, di clientela, di consumatore sono definitivamente superati. Il marketing, con miopia, ha distrutto le relazioni fra le persone, fingendo di crearle. Infatti, si è certi di parlare con tutti e in realtà non si parla con nessuno. Il marketing ha favorito spesso approcci strumentali verso un mercato di consumatori che sono e restano degli sconosciuti. L’evoluzione nel mondo della comunicazione è stata enorme, ma, come tutti sappiamo, l’obiettivo è stato solo quello di ottenere consensi emotivi, di imbellettare la realtà, badando bene a non modificare realmente lo status quo. Oggi nessuno più accetta di essere oggetto passivo di chi vuole solo “colonizzare”. O si è disposti all’ascolto o si muore. Perché comunicare è mettere in comune.
Quelli che disputano, contraddicono e confutano la gentedi solito sono sfortunati nei loro affari.Talvolta ottengono una vittoria, ma mai la benevolenza,che sarebbe per loro di maggiore utilità. Benjamin Franklin
Anni fa fui chiamato a Rimini a un convegno di meeting planner per fare un intervento sulle tecniche dell’oratoria. Già da qualche tempo mi occupavo di formazione proprio in questo settore, e non ero particolarmente preoccupato per l’impegno che mi attendeva. Durante la giornata precedente avevo rivisto i miei appunti, avevo preparato un buon inizio, una conclusione divertente e tutto sommato partii tranquillo, mettendo in valigia il costume da bagno ( eravamo alla fine del mese di giugno). Arrivato a Rimini in serata, entrai direttamente nella sala ristorante dove si svolgeva la cena. Accanto al presidente dell’associazione promotrice c’erano due personaggi molto noti, Luciano De Crescenzo e Michele Mirabella. Dopo poco compresi di non essere stato invitato a tenere la mia conferenza da solo, ma in compagnia di quei due mostri sacri. La cosa mi preoccupò un po’; è evidente che due personaggi amati e visti alla televisione avrebbero avuto un impatto ben superiore al mio. Durante la notte pensai frettolosamente di cambiare l’inizio del mio intervento e prima di addormentarmi mi venne un’idea abbatanza buona. La mattina successiva chiesi al presidente di parlare per ultimo. Mi sentivo un vaso di coccio fra i vasi di ferro. Parlò per primo De Crescenzo, molto abile, molto simpatico, bravo nell’accattivarsi il pubblico, naturalmente molto applaudito. Poi venne Mirabella, che non conoscevo (non guardo molto la televisione). Fu veramente bravissimo, colto, intelligente, spiritoso, seppe toccare gli argomenti giusti senza annoiare. Ed ecco il mio turno. Mi alzai balbettando, le mani sudate che t remavano un po’, inforcai gli occhiali, presi alcuni fogli che avevo sul tavolo, e iniziai dicendo che non avrei potuto parlare a braccio poiché mi avevano dato troppo poco tempo; affermai per due o tre volte che il presidente dell’associazione, di cui non ricordavo il nome, era stato inflessibile, dichiarai anche che avrei avuto delle diapositive da mostrare, ma questo sarebbe stato impossibile poiché, come avevo già detto, il mio tempo era molto limitato. Quindi, per non perdere altro tempo in chiacchiere, presi a leggere il primo foglio della relazione. Dopo circa un minuto, buttai via foglio ed occhiali: avevo fatto una sceneggiata solo per d i m o s t r a re al pubblico come “non si parlava in pubblico”; avevo commesso molti errori, mi ero dimenticato il nome del presidente, al quale peraltro dovevo l’invito, avevo perso cinque minuti per lamentarmi che me ne avevano dati dieci, mi ero lasciato prendere da una terribile emotività, avevo parlato di me invece che degli altri, avevo letto invece di parlare a braccio. Odio l’immodestia, ma questo mio intervento fu un vero trionfo.
Dimidium facti, qui coepit, habet (chi ben comincia, è a metà dell’opera)
Dalla prima pagina del saggio “Come un romanzo”, di Daniel Pennac.
Il verbo leggere non sopporta l’imperativo… come il verbo “amare”… il verbo “sognare”… naturalmente si può sempre pro-vare. Dai, forza: “amami!”, “sogna!”, “leggi!”, “leggi!, ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!” “Sali in camera tua e leggi!” Risultato. Niente. Si è addormentato sul libro. All’improvviso la finestra gli è apparsa su qualcosa di desiderabile, e da lì è volato via per sfuggire al libro. Ma è un sonno vigile, il libro è ancora aperto davanti a lui e se aprissimo la porta della sua camera, lo troveremmo seduto alla scrivania tutto preso dalla lettura. Anche se siamo saliti con passo felpato, dalla s u perficie del sonno ci avrà sentiti arrivare. “Allora, ti piace?” Non ci risponderà di no, sarebbe un delitto di lesa maestà. Il libro è sacro, come può non piacergli leggere? No, ci dirà che le descrizioni sono troppo lunghe. Tranquillizzati, torneremo alla nostra televisione… “ Hinn domà i liber che resten liber anca quand hinn ligaa.”
Sono solo i libri che restano liberi anche quando sono ri-legati. Questa frase è attribuita a Emilio De Marchi e ha senso solo in dialetto milanese poiché è giocata sul doppio significato della parola “liber”, libro, ma anche libero. Ma non è solo un gioco di parole; esiste un profondo legame fra libertà e lettura, un legame che oggi non viene più percepito. In effetti, non è solo la perdita di valore del concetto stesso di libertà nella società attuale a farmi fare questa riflessione, ma è il crollo verticale della vendita di libri.
Gli ultimi dati Istat rivelano che il 56% degli italiani non legge neppure un libro all’anno. La cosa pazzesca non è tanto il dato statistico, ma sono le motivazioni dei non lettori, che paiono quasi orgogliosi di non leggere mai un libro. Ecco alcune argomentazioni: non ho tempo; faccio fatica; ho bisogno di rilassarmi; ho gli occhi stanchi; mi fa addormentare; è una perdita di tempo; il libro non appartiene alla modernità. Questo è sicuramente dovuto a un ritmo di vita troppo frenetico, alla pervasività della televisione, alla “solitudine” rifuggita costantemente, poiché “leggere” significa stare soli. Questa sfiducia nella parola scritta ci porta a rifiutare qualsiasi approfondimento o ampliamento del nostro orizzonte, se questo passa attraverso la scrittura.
Tornando a Emilio De Marchi, vorrei ricordare che a Milano, qualche anno fa, si è svolto “Liber Expo”, un salone del libro il cui slogan era: “Liberi di leggere, leggere per essere liberi”. Una bella iniziativa che non ha avuto futuro.
Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere. Daniel Pennac
Dal momento che lavorare bisogna, è meglio fare un lavoro che piace. Questa affermazione può sembrare banale, non tutti nella vita riescono a fare l’astronauta, lo scrittore, il calciatore. I più devono accontentarsi di un impiego che non si sono scelti e che sicuramente non rappresentava l’obiettivo ottimale. Tuttavia, anche costoro, i più, possono lavorare in tranquillità, in serenità ed essere motivati. Questo è il compito della comunicazione interna, una strategia aziendale volta a coinvolgere le persone, ottenendo il massimo consenso sugli obiettivi conseguiti, la massima responsabilità individuale, la massima partecipazione nelle azioni comuni. La comunicazione interna è il risultato del dialogo che chi lavora in un’azienda ha con i propri colleghi. Essa riflette il come l’impresa è percepita, pensata e interiorizzata da tutti gli addetti. Tutta l’impresa è coinvolta in questo processo, tutti dovrebbero essere sensibilizzati. Tutti i dipendenti, infatti, dal management agli operatori, in misura più o meno complessa, contribuiscono al raggiungimento dei fini e degli obiettivi aziendali costituendo autentici, e viventi, veicoli di comunicazione. Una corretta politica di comunicazione nei loro confronti consolida il senso di appartenenza all’azienda, favorisce atteggiamenti e comportamenti che incidono poi positivamente sull’immagine dell’organizzazione stessa. E non solo sull’immagine, anche e soprattutto sulla reale efficienza organizzativa! Tuttavia, per fare ciò bisogna mettersi in una dimensione di ascolto; infatti non si possono giudicare le persone senza conoscerle. A volte lo si fa solo attraverso un curriculum o alcuni dati statistici. Non è dai numeri che si giudica una persona, ma soltanto ascoltando le sue ragioni sarà possibile allargare a dismisura gli elementi di giudizio. Heidegger diceva che il silenzio è la condizione per ogni tipo di comunicazione, che il silenzio è all’origine dell’ascolto. Questo significa che forse oggi abbiamo esagerato, che forse il top management dell’azienda è talmente preso a comunicare da non avere più il tempo per ascoltare. Invece è proprio attraverso un censimento meticoloso delle aspirazioni, delle attitudini e delle motivazioni dei singoli che si creerà un nuovo sistema di valori, comprendendo che il più grande valore che appartiene alla gente è la soluzione dei suoi problemi. Nelle aziende, troppo spesso, ho sentito parlare dei problemi e quasi mai delle loro soluzioni. Maria Ludovica Varvelli, grande psicologa e consulente di organizzazione, dice: “Ciò che contraddistingue un’organizzazione di successo non è il fatto di non avere problemi, ma è il fatto di non avere più quelli dell’anno scorso”. E, soprattutto, aggiungo io, l’azienda non è e non può essere più importante delle persone, poiché è fatta dalle persone che la vivono ogni giorno e, senza di esse, non esisterebbe neppure.
Il saggio non si espone al pericolo senza motivo, poiché sono poche le cose di cui gl’importi abbastanza; ma è disposto, nelle grandi prove, a dare perfino la vita, sapendo che a certe condizioni non vale la pena di vivere. Aristotele
“Non concesse alla noia neanche un minuto della sua esistenza”. L’ho letto da qualche parte, non l’ho inventato io, ma potrebbe essere il mio epitaffio. Oggi tutti si annoiano, ed è per questo che riempiono le proprie giornate di cose da fare. Finalmente ci sono i cellulari, così i manager non devono più restare soli con se stessi neppure un minuto. A volte penso che il manager sia veramente una razza a sé, e anche piuttosto stupida. Pieno di impegni, di appuntamenti, approfitta di qualunque minuto per telefonare, si carica così tanto di lavoro da abbandonare completamente la strategia per la tattica. Questo genere di persona si diverte molto a maltrattare se stesso e, se non lo fa, si annoia. Ho avuto un grande maestro e grande amico, Silvio Ceccato. Diceva che oggi, se non si fanno almeno 8.000 chilometri, non si può fare del turismo. Ma, diceva sempre Ceccato, o lo spirito turistico ve lo portate dentro di voi, e allora potrete trovare le vostre Hawaii anche sul Lago Maggiore, oppure non vi divertirete mai, anzi, andrete sem- pre più lontano solo per far vedere agli amici dei noiosissimi filmini (Dio mi scampi dalle serate a base di diapositive sulle vacanze altrui!). Caro manager, caro imprenditore: senza la più assoluta calma meditativa, senza la necessaria distensione, senza raccoglimento e concentrazione non nasce alcuna opera valida. Dominati dall’ansia non si produce nulla di qualitativamente elevato. La vera creatività nasce dal pensiero e dalla tranquillità. Ma… si sa, in silenzio ci si annoia!
La noia è quando la serietà diventa maggiorenne. Oscar Wilde
Ho conosciuto il presidente di una società che si divertiva a t r a c c i a re organigrammi. Amava molto anche la carta da lettere sulla quale faceva stampare, in un’apposita banda a sinistra, tutti i nomi dei componenti della tal divisione o del tal consiglio. Se poi non funzionava nulla, si meravigliava molto, ma il suo modo per risolvere la situazione era un bel “rimpasto”. Un anno, dodici tipi di carta da lettere differenti. La cuccagna dei tipografi! Infatti non era possibile usare la vecchia carta con il nome del tale colpevole di alto tradimento degli obiettivi dell’impresa. Questa cultura, peraltro diffusa, è, secondo me, derivata dai giochi infantili. “Facciamo l’esercito. Io faccio il capitano…”. Oggi le aziende non vivono di organigrammi, né di gerarchie, infatti non è più possibile che un’autorità costituita governi con il pugno di ferro e dica ciò che si può fare e ciò che non si può. Le gerarchie sono sempre causa di tensioni e di turbolenze. Intendiamoci, non sono contro la leadership spontanea; il capo moderno, però, guadagna i suoi gradi sul campo e, ogni giorno, dovrà dimostrare di meritarli ancora. Infatti, la leadership spontanea si crea e si distrugge e, quindi, in molti casi passa dall’uno all’altro secondo le competenze e i problemi che si pongono di momento in momento. Insomma, una volta il capo era uno che si metteva i gradi e diceva, qui comando io. Oggi, al contrario, è nei momenti di grande crisi che ci si rivolge a lui per la sua competenza e si dice “prendi tu la barra del timone”. Questa è la democrazia, anche in azienda. Mi chiedo a questo punto come si possa sostenere il capitalismo di tipo familiare . Siamo proprio sicuri che il miglior manager per la gestione del futuro aziendale sarà il figlio del proprietario? Mah!
In una gerarchia, ogni impiegato tende a salire al proprio livello di incompetenza… Col tempo, ogni posto tende ad essere occupato da un impiegato che è incompetente nell’esecuzione del lavoro… Il lavoro viene fatto dagli impiegati che non hanno ancora raggiunto il loro livello di incompetenza.
Laurence Johnston Peter
“Lei signorina non è pagata per pensare”. No, questa frase non è stata presa da un film di Fantozzi. L’ho sentita in un ufficio. Sì, siamo circondati dalla prepotenza. Aveva capito tutto Mussolini. Qualsiasi coglione con una divisa e un paio di galloni sulla camicia si sentiva Dio. E lui aveva creato anche il capo condominio. È prepotente il capo ufficio, ma è altrettanto prepotente l’impiegato delle Poste che ci chiude lo sportello in faccia quando arriviamo di fronte a lui dopo la consueta, interminabile coda. Ma, cos’è la prepotenza? La prepotenza è violenza allo stato p u ro. Il prepotente è un distributore di schiaffi immeritati e… spesso non lo sa. Vorrei che non si praticasse né subisse piùviolenza, soprattutto questa violenza mascherata che si chiama “prepotenza”. Prepotente è un aggettivo che dicono le nonne ai nipotini: “Non fare il prepotente!” Ma il mondo del lavoro è pieno di nipotini mai cresciuti. Sono quelli che comunicano negli uffici o nelle aziende e pretendono di essere letti o ascoltati senza pensare, neppure lontanamente, ad ascoltare gli altri. È vero, questo si manifesta soprattutto ai livelli più alti, ma le piccole maleducazioni, le piccole angherie sono diffusissime a ogni livell interrompere gli altri mentre parlano, alzare la voce, fumare dove è proibito, far rumore, non rispettare le code, tenere la radio a tutto volume, tutto ciò è prepotenza e si esprime quotidianamente. Ho conosciuto molti genitori che non reprimono le intemperanze dei loro figli perché “oggi serve grinta per andare avanti”. Ma, troppo spesso, il fanciullino scambia la prepotenza per grinta. La carriera, la posizione, dovrà conquistarsela perché è bravo, non perché schiaccia gli altri. La prepotenza produce sudditanza, disparità. Il contrario della prepotenza non è arrendevolezza o mansuetudine, ma equilibrio. Aequus (uguale) e Libra (bilancia) – le parole latine che compongono il termine equilibrio non potevano essere più precise e calzanti. Come ci insegnavano già oltre vent’anni fa gli esperti di analisi transazionale, l’equilibrio, la parità di status fra chi parla e chi ascolta, è alla base di ogni comunicazione.
Negli affari, che cosa avviene prima? La prepotenza; che cosa secondo e terzo? La prepotenza; eppure la prepotenza è figlia dell’ignoranza e della viltà. Francesco Baconec
Relazioni umane: l’insieme delle attività che tendono a migliorare i rapporti tra i dirigenti di un’azienda e i loro dipendenti. Relazioni pubbliche: l’insieme dei mezzi che tendono a migliorare i rapporti non direttamente economici di un’azienda, o di un ente, con il pubblico. Era davanti a me in carne e ossa il Cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, quando pronunciò una frase che mi colpì molt “non si possono ridurre a tecniche cose che riguardano la dignità e l’esistenza stessa, come le relazioni fra gli uomini”. Non si possono ridurre a tecniche… che bello! Che calcio negli stinchi a tutti i “tecnici della comunicazione o delle relazioni pubbliche”. Non si possono ridurre a tecniche… eppure sul vocabolario è scritto “l’insieme delle attività… l’insieme dei mezzi”. No, non è così; non basta parlare di mezzi e di attività, bisogna parlare di cuore, di sangue, di spirito. Purtroppo, nelle aziende, il cuore non c’è. Neppure l’ombra. Si è passati dal panettone e lo spumante regalati a Natale alle attività di comunicazione interna fatte solo per ridurre la conflittualità. La comunicazione è sempre stata strumentalizzata. Si è accettato di far comunicazione per controllare meglio gli altri, ma la comunicazione non è controllo o potere, è accogliere le idee altrui, re la critica più che il consenso. È compre n d e re le ragioni del dissenso per stabilire, appunto, sistemi di “relazione”. C o m u n i c a re vuol dire mettere in comune, non approfittare della dabbenaggine altrui attraverso raffinate tecniche. In un’azienda multinazionale che mi ha convocato per comunicare meglio esistevano tre mense. Quella dei dirigenti (tovaglioli di stoffa), quella degli impiegati (tovaglioli di carta), quella degli operai (senza tovaglioli). Quando dissi che la comunicazione doveva partire dall’eliminazione di queste differenze, mi presero per pazzo. Ovviamente non ho firmato il contratto di consulenza.
Il primo dovere di un uomo è parlare; è questa la sua principale ragione di vita. Robert Louis Stevenson
Spesso le persone sanno che strada hanno percorso per arrivare al successo. Quasi mai, però, conoscono il modo per mantenerlo. Essere personaggi di successo piacerebbe a chiunque. Anche se non ho mai ben capito se è più importante primeggiare sugli altri, essere realmente il migliore o essere semplicemente riconosciuto tale. Ma che cos’è il successo? I fattori che lo determinano sono diversi, ma… bravi si nasce o si diventa? Beh, è innegabile che vi siano talenti innati come Totò o Ronaldo. In questi casi, però, non si parla più di bravura, ma di vera e propria genialità. Il più delle volte bravi si diventa, attraverso volontà, studio, impegno e tanto, tanto lavoro. In una recente intervista, Antonio Ricci, creatore di Drive-in, Paperissima, Striscia la Notizia, ha dichiarat “Non mi sento arrivato, anzi, non voglio arrivare. Vorrebbe dire fermarsi. Sono solo contento di non essere cambiato, ho fatto quello che mi garbava e casualmente piaceva alla gente, andava bene. Non ho mai lavorato per soldi; io vivo bene anche con un pomodoro al giorno. Il lato economico è assolutamente secondario, è una conseguenza del piacere di lavorare. Di regola mi scordo di firmare il contratto e lo faccio a conclusione dei lavori”. Ricci si dimostra un vero uomo di successo. È così diverso dal politico presenzialista ed egocentrico, che si fa fotografare alle sfilate di moda o brinda all’inaugurazione della nuova discoteca, o dal noto critico d’arte ritratto in mezzo alle bellone di turno, infastidito, a suo dire, dai flash dei paparazzi. Questi Rambo dell’immagine, che sgomitano per apparire nelle r i p rese televisive o nelle foto, nulla hanno a che vedere con le persone di successo, e sono soliti usare gli altri come semplici strumenti. Diceva Lao Tse: “Il motivo per il quale fiumi e mari ricevono l’omaggio delle sorgenti di centinaia di monti sta nel fatto che fiumi e mari stanno più in basso delle montagne e così possono regnare sulle sorgenti montane. Così il saggio che desidera porsi al di sopra degli uomini di fatto si pone al di sotto di loro; il saggio che desidera porsi davanti agli uomini, di fatto si pone dopo di loro. Così, benché il suo posto sia sopra gli uomini, essi non risentono del suo peso; benché il suo posto sia davanti a tutti loro, essi non se ne sentono offesi”.
Un grande uomo mostra la sua grandezza dal modo in cui tratta gli altri.
Dale Carnegie
Muovevo i primi passi nel mondo del lavoro quanto un manager rampante mi disse: “Chi lavora più degli altri fa più carriera degli altri”. Sinceramente questa dichiarazione mi sconvolse. Il giudizio può e s s e re solo quantitativo? Vale più la quantità della qualità? Oggi, dopo circa trent’anni, ho confermato sempre più un’avversione nei confronti di questo tipo di mentalità. Quanto agiamo in fretta non abbiamo tempo per immaginare, per pensare, per creare. E chi crea si diverte, lavora meglio, è felice. Purtroppo, invece, questi sono gli anni della “occupazione globale”. Alleviamo i nostri bambini tra la scuola, la piscina, l’inglese e la TV. Tenersi sempre occupati, secondo me, è un modo per non p e n s a re, per non sentire l’angoscia e la solitudine che abbiamo dentro. Le persone usano la TV, il cellulare, e ora anche internet per non sentirsi isolate. La nostra cultura è talmente dedita al movimento, alla fretta e all’occupazione globale da renderci incapaci di fissare l’orologio lasciando correre le lancette anche per un solo minuto. Prima ci riempiamo la vita di impegni, e poi? Ci sentiamo trop- po occupati e rinunciamo a vedere gli amici, ad andare a teatro, a passeggiare nei boschi. Il manager e l’imprenditore sono i massimi esponenti della categoria degli occupati; nelle aziende, infatti, non vieni giudicato per quello che sei, ma per quello che fai, per quanto guadagni e per la tua carriera. Io, fin da giovane, mi sono sempre rifiutato di identificarmi in ciò che faccio. Lo trovo estremamente limitativo. Poi, sinceramente, tutto ciò è fonte di stress. Alcuni sintomi? Vedere il lato negativo delle cose, sentirsi oppressi e avere ansie e timori, trovare irritanti gli altri, sentirsi tesi e cambiare umore. Pensare troppo al lavoro. Credo che dovremmo insegnare ai giovani altri valori. È bene che sappiano liberarsi dalla ricerca spasmodica del successo, dalle corse contro l’orologio, dal presenzialismo. Per essere felici e realizzati, i futuri manager e imprenditori dovranno organizzare cene dove sia proibito parlare di lavoro, coltivare amicizie disinteressate, fare passeggiate lungo la spiaggia, godersi una prima colazione in santa pace. Un’ora di pensiero libero porta più benefici di giornate di lavoro in ufficio. Avviciniamoci alla natura: boschi, cascate, onde del mare stimolano le capacità creative.
Oserò esporre la più grande, la più importante, la più utile regola di tutta l’educazione. Non si tratta di guadagnare tempo ma di perderne. Jean Jacques Rousseau
L’Umanesimo storico raggiunge la sua maturità nel corso del XV secolo e approda nel Rinascimento. Il disprezzo per la cultura medioevale e la necessità di un rinnovamento fanno sì che l’uomo rivaluti la propria possibilità di compre n d e re e di trasformare il mondo. L’Umanesimo nasce in Italia. Potrebbe rinascere nel terzo millennio un movimento di questo genere? Credo proprio di sì. Il mondo, infatti, sta cambiando sempre più rapidamente, lasciandoci intuire un futuro ben diverso dai decenni che hanno caratterizzato la fine dello scorso millennio. Molti aspetti tipici della nostra cultura di quegli anni si vanno svuotando e vengono via via abbandonati; pensiamo all’onnipresente manager, una specie di superman in abito grigio che sociologicamente incarnava quell’ideale di efficientismo, supertecnicismo e successo che, secondo i più, a partire dalla vita professionale avrebbe dovuto progressivamente permeare ogni aspetto della vita quotidiana, dalla politica alla cultura, dallo spettacolo al sociale. Tramontato l’ entusiastico yuppismo, e crollati i miti della società dell’immagine, oggi ci troviamo con una fortissima e impellente ricerca di nuovi valori, quali l’onestà, la verità, la solidarietà. Questa tendenza ci impone la necessità di tornare a umanizzare i ruoli in tutti gli aspetti della nostra vita, riportando l’uomo al centro del sistema. Non è certo un’idea nuova, ma rimane un concetto forte che oggi può aiutarci a superare l’attuale crisi di valori individuali e di ideologie collettive. L’apparato non può essere sopra a tutto e prima di tutto, perché ciò costituisce solo una spersonalizzazione, uno stratagemma ideato per sfumare i ruoli, favorire le coperture e rendere difficile l’attribuzione delle responsabilità. I mali che ha prodotto questo sistema sono stati purtroppo ben visibili agli occhi di tutti! A questo punto appare chiaro che il protagonista assoluto torna ad essere l’uomo, inteso come individuo che ha veramente qualcosa da dire e un ruolo da giocare. La persona, in sintesi, che, grazie alle sue qualità, riesce a meritarsi la fiducia e il rispetto degli altri. Credo che negli anni a venire, l’Essere vincerà definitivamente la sua battaglia sull’Avere.
La vera scienza e il vero studio sull’uomo sono l’uomo stesso.
Pierre Charron
Qualche tempo fa la rivista COMUNICO ha organizzato un incontro dal titol “Essere autentici nel lavoro paga?” 130 persone hanno dibattuto con interesse e curiosità, e gli animi si sono anche un po’ riscaldati. Intendiamoci, non si è proprio litigato, ma si è sicuramente discusso in modo animato. A confronto due tesi, due filosofie, due modi di pensare e, forse, anche due generazioni. Gli ultra cinquantenni, radicati nella loro posizione: essere autentici non si può. Sull’altra barricata i più giovani. Sicuramente l’autenticità costa, tuttavia i più sembravano certi che la scelta non andasse fatta nel lavoro, ma nella vita. È infatti molto difficile pensare di essere il dottor Jekyll per 8-10 ore al giorno e Mr. Hyde nel tempo restante. Nella comunicazione non credo vi sia alternativa. Dopo i processi di fine millennio, oggi i giovani chiedono la fine dell’ipocrisia per dar spazio a una vera e propria cultura della verità. È necessario un netto disinquinamento della comunicazione. La gente non vuole più sentirsi dire le bugie. È opportuno sapersi mettere in gioco, sapersi mettere in discussione, essere disponibili ad affrontare a viso aperto il confronto. Non attraverso la tolleranza, ma attraverso la comprensione; non attraverso la competizione, ma attraverso la cooperazione. Abbiamo riscontrato in questo dibattito che questi valori faticano ad essere re c e p i t i . Qualcuno ci ha detto che bisogna usare le tecniche di marketing: capire ciò che la gente vuol sentirsi dire e poi semplicemente… dirglielo. Tutto ciò ci sembra troppo facile, troppo scontato, troppo vecchio. In un momento di transizione come questo, abbiamo bisogno di idee nuove, di forze nuove e di molto coraggio. Scriveva Leopardi nello Zibaldone, nel 1821: “Nessuna opinione vera o falsa, ma contraria all’opinione dominante generale, si è mai stabilita nel mondo istantaneamente, e in forza di una dimostrazione lucida e palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di assuefazione”. Che avesse già capito la forza della pubblicità? Non lo sappiamo, ma convinti delle nostre idee, organizzeremo molti altri dibattiti e diffonderemo queste nostre idee fino “all’assuefazione”. Solo chi ha avuto il coraggio di portare avanti la sua utopia è riuscito davvero a cambiare le cose.
Chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco; ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un malfattore! Bertold Brecht
Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quello che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di tropp “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno di detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”. Eh…no, purtroppo la prosa non è mia, ma di Italo Calvino. Non sarei riuscito a dare una così brillante dimostrazione di ciò che Calvino ha definito l’antilingua. In effetti non si tratta di un gioco. Non solo i carabinieri, ma i magistrati, i notai, gli avvocati, gli ufficiali giudiziari, e una quantità di altra gente, ogni giorno, quasi senza saperlo, traduce nell’antilingua l’italiano corre n t e . “Nell’antilingua – dice Calvino – i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e di sfuggente”. L’antilingua è la paura di dire pane al pane e vino al vino, è l’uso di paroloni e di espressioni affettate e ridondanti, che riducono la chiarezza e l’incisività della lingua. L’antilingua è uno stile distante da chi ascolta, ampolloso e antiquato, e quindi, al di là delle facili ironie sul burocratese, si firmerà in calce e non in fondo alla pagina, si porrà in essere e non si farà, si opporrà diniego al posto di rifiutare. Tuttavia non è solo il burocratese a usare l’antilingua, spesso e volentieri è un antilingua anche l’aziendalese.