per una nuova cultura della comunicazione

Rivista Comunico - Numero 2

Fermati... e ascolta

A scuola non ero un fuoriclasse. Me la sono sempre cavata con la sufficienza. Quando mia madre andava a parlare con i professori le dicevan “ha un’intelligenza viva, potrebbe fare di piu'”. Poveretti! Se avessero saputo che fra lo sport, la musica, la politica e qualche ragazza, praticamente non aprivo libro! Che dico… di libri ne aprivo e molti… ma non erano certo i testi scolastici!
E allora, come ho fatto a cavarmela? A concludere una normale carriera scolastica, liceo classico compreso? E’ facile, ho sempre avuto un dono innat so ascoltare. Questo, unito ad una discreta memoria, mi ha sempre facilitato molto. Ricordo ancora che, al ginnasio, il professore ci leggeva in classe “I Promessi Sposi” ed io, affascinato dal racconto, interrogato lo ripetevo quasi a memoria. Ancora oggi potrei citarne alcuni capitoli, elencando i personaggi, perfino quelli minori.
Questo dono innato mi ha aiutato molto anche nella vita, non solo perche’ mi ha permesso di ricordare perfettamente le cose che ho udito, di apprendere qualche lingua straniera, molte canzoni o qualche termine scientifico, ma soprattutto per un motiv l’interlocutore se ne accorge. Un giorno Papa Paolo VI ando’ a visitare un seminario e un giovane seminarista gli chiese: “Santo Padre, come faro’ ad essere un buon prete?” Il Papa rispose: “Fa’ comprendere al tuo interlocutore la sua unicita’”. Le relazioni umane sono lo strumento chiave per ottenere risultati nella vita come nel lavoro. Tramite i rapporti positivi si puo’ giungere al successo ed essere piu’ felici e tutto questo grazie ad un piccolo segret la capacita’ di ascoltare e di far tesoro di cio’ che si e’ udito. Provateci!

Il silenzio non esiste. Banale, ma vero. Cos’e’ il silenzio? Tutto cio’ che non e’ tale: suono, rumore, frastuono, strepito, fracasso. Eppure e’ un’idea che nella vita e’ ricercata, inseguita con ostinazione. Invano. Neppure il piu’ ascetico dei monaci tibetani, nemmeno quelli di loro che hanno sempre aborrito le tourne’e per il mondo cantando nenie natalizie, lo conoscono. Per un po’ abbiamo avuto un’illusione, che passando a miglior vita avremmo potuto raggiungere l’agognato traguardo e finalmente riposare timpani, labirinti, coclee, staffe e martelletti, ma niente, qualcuno, novello Giovanna d’Arco con magnetofono, ha registrato voci, messaggi, canti, conversazioni con l’aldila’, ed e’ crollato il mito, che Iddio li fulmini. Voglio il silenzio, ne ho bisogno, tanto piu’ in una societa’ di frenetici agitatori di mascelle, dove le parole si inseguono svuotate del loro semplice significato, sottofondo esistenziale a mezzo tra la radio a basso volume e lo sperpero di fiati. E si sprecano, contaminando la quiete. Parole, parole, anche a proposito del silenzio.
E dire che il silenzio e’ piu’ importante della parola, non abbiamo forse una sola bocca e due orecchie? Ci sara’ un motivo. Cosi’ come mi piace riflettere sul fatto che si dice: ma quanto parli!, mai: ma quanto ascolti! E allora mi si conceda il desiderio dell’ascolto, in tutte le sue poliedriche sfaccettature, dal sentire fisico, quello della fame, del freddo, del dolore, al sentire della sfera delle sensazioni – chi non ha mai proferito un classico “sento di amarti” scagli la prima pietra – fino al silenzio dei luoghi comuni, del “non c’e’ peggior sordo di chi non vuol sentire”. Da quello degli innocenti di oscariana memoria a “silenzio, parlano i maccheroni”; da quello impositivo degli insegnanti al minuto commemorativo, e via andando. Di silenzio si straabusa.
Ho fatto un sogn c’era una grande scala di metropolitana, uomini bianchi, uomini gialli, uomini neri, giornalisti, si incontravano e si scambiavano frasi, suoni, urla, richieste, si facevano domande e si davano risposte, e le une non erano riferite alle altre, e non si capiva un beato tubo. Poi, improvvisamente, tutti tacevano, nessun suono, nessun rumore, tutti si guardavano e, incredibile ma vero, si capivano e si sorridevano. Ho fatto un sogno, ma chissa’ mai che ancora una volta la realta’ superi la fantasia. Si spengono le luci, si abbassano le voci, e parte una tromba… il Silenzio.

La mia storia, la storia di ogni uomo. La stessa relazione inseguita e consumata con affanno, vorace, per tutta la vita, insieme con tante donne diverse. Attraverso i secoli, incapace di fermare il momento, di sentire, di ascoltare, dentro il cuore prima che attraverso le orecchie, le parole che placano, nell’attimo, la sete, che spengono l’angoscia di una domanda in una risposta, la piu’ semplice, la piu’ difficile. “Mi ami?”, so solo domandare.

Francesca
M’innamorai alla follia di lei, Francesca. Tutto era nato quando un giorno leggevamo per diletto di Lancillotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per piu’ fiate gli occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso, ma solo un punto fu quel che ci vinse. Quando leggemmo il desiato riso esser basciato da cotanto amante, la bocca ci basciammo tutti tremanti. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno piu’ non vi leggemmo avante. Finimmo giu’, insieme, nel secondo cerchio e cos“ Francesca stessa lo riassunse compiutamente al Poeta, mentre andavamo, leggieri al vent “Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese di costui piacer s“ forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona”. Ne valse pero’ la pena. Bevvi il desiderio fino in fondo e impiegai un bel po’ di tempo prima di riprendermi. Poi ci cascai di nuovo.

Giulietta
Forse fu la festa, gli invitati, i servi, i musici, le luci. Persi letteralmente la testa. Fu a Verona, in casa Capuleti. Ero andato insieme ad amici e la vidi, Giulietta: bella come un ricco gioiello splendente di fronte alla notte all’orecchio di un etiope. Ah, che tenerezza!: “Se colla mia indegna mano destra profano questa santa reliquia, eccone la soave ammenda: le mie labbra sono pronte ad addolcire con un tenero bacio la mia ruvida stretta di mano”. Mi rispose che a torto disprezzavo la mia mano e che le mani dei santi possono essere toccate da quelle dei pellegrini e che questi hanno labbra per pregare. “Dilettissima santa, concedi alle mie labbra di far quello che ha fatto la mano”. Avvicinai il mio volt “Non muovetevi, dunque, mentre io colgo il frutto delle mie preghiere – la baciai teneramente – ecco, il peccato dalle mie labbra e’ cancellato dalle vostre labbra”. Oh, quanta dolcezza mi venne dal mio ardire! – la baciai ancora. Purtroppo fin“ bruscamente. Persi il pelo, ma non il vizio e continuai ad amare.

Rossana
C’era una piccola piazza nella citta’ vecchia. La casa di Rossana. Il muro del giardino. La finestra e il balcone. Che sballo quella donna! Rossa di capelli e morbida come un baba’ al rhum! Al buio le parlai, spacciandomi per un altro fesso piu’ fesso di me. Dissi che era stupendo indovinarsi appena. “Voi intravvedete un mantello nero, io una gonna bianca d’estate: io non sono che un’ombra e voi un chiarore!” Lei mi parlo’ dello spirito, ed i “In amore lo detesto… io v’amo, soffoco, t’amo, sono pazzo, non ne posso piu’, e’ troppo… “. Mi disse che il mio era proprio amore e io le chiesi un bacio. Fui magico! “Che cos’e’, poi, un bacio? Un giuramento un po’ piu’ da vicino, una promessa piu’ precisa, una confessione che cerca una conferma, un punto rosa sulla “i” di “ti amo”, un segreto soffiato in bocca invece che all’orecchio, un frammento d’eternita’ che ronza come l’ali d’un’ape, una comunione che sa di fiore, un modo di respirarsi il cuore e di scambiarsi sulle labbra il sapore dell’anima!” Dolce Rossana! Veramente dolce!

Madelon
Madelon invece era violenta, disperata come d’altronde lo era stato il nostro rapporto. Mentre il taxi avanzava lungo la strada di Argenteuil diretto verso la porta e poi verso Vigny ed appena superata Saint-Ouen, lei aveva ricominciato con le doglianze circa il mio affetto e la mia fedelta’ “vieni Leon, vieni che te lo chiedo per l’ultima volta! Mi senti, vieni?… te ne freghi che ti amo?”… Isterica aveva continuato a strillare e mi aveva chiesto se non era vero che mi diventava duro come gli altri, quando facevo l’amore! Allora mi ero arrabbiato veramente e le avevo gridato che mi ripugnava e faceva schifo e che mi sembrava come far l’amore nei cessi! Mi aveva interrott “e’ ignobile quello che dici. Vieni? vieni Leon? uno… ci vieni? due… – aveva aspettato – tre… non vieni allora?” “No! – le avevo risposto, senza muovermi di un millimetro – fa come vuoi!”. Madelon si era allora un po’ ritirata sul sedile, fino in fondo. Doveva tenere la rivoltella a due mani, perche’ quando il colpo era partito era come dritto dal suo ventre e poi, quasi insieme, altri due colpi, due volte di seguito… di un fumo acre s’era allora riempito il taxi. Ero ricaduto sul fianco, balbettando “hop! e hop!”, mi ero lamentato “hop! e hop!”. Era stato splendido comunque.

Flor
Mi riebbi solo qualche po’ d’anni piu’ avanti. Avevo anche cambiato aria e continente. Che gioia e felicita’ era Flor! Ah grande Bahia. L“, in quella casa di Rio Vermelho non si tollerava alcun indumento sui nostri corpi, ne’ lenzuolo pudibondo a nascondere le nudita’. Lei completamente nuda. Seni sodi, le natiche ben fatte, il ventre quasi privo di peluria. Nuda anche di dentro, affamata di desiderio. Io le dicevo sempre: “Mio dolce di cocco, mio fior di maggiorana, sale della mia vita!”. Andavamo e venivamo, ci correvamo incontro e ci soccorrevamo, e appena di ritorno partivamo nuovamente, in arrivo e partenza. Tante mete da raggiungere, tutte toccate, alcune ripetute. Insolente e beneamata, indecente e bellissima, la mia voce le sussurrava scostumatezze e la accarezzav “il tuo sedere da sirena, il tuo ventre color del bronzo, i tuoi seni di avogado. Tu, Flor, sei appetitosa dalla testa ai piedi”. “Che sapore ho?” dona Flor spudorata e cinica. “Sai di miele, di pepe e di ginepro”.

Caterina
Ho continuato a provarci. Era finita la grande guerra e mi sono riaffacciato sul vecchio continente. Bell’Italia. Ho comprato un’automobile. Ho combinato un appuntamento nel parcheggio dietro il campo sportivo. La signora Caterina ha visto la mia macchina posteggiata un paio di file piu’ avanti, sulla destra. Ci sorridiamo quando gli sguardi si incontrano mentre lei si avvicina ed entra nell’auto. Ho ingranato la prima e ci siamo avviati verso la tangenziale, direzione laghi. La mano sinistra di lei si e’ appoggiata sui miei calzoni e ha iniziato a sbottonare. Le ho chiesto come va in ufficio “bene, per fortuna”, ha risposto lei, mentre aveva finito coi bottoni. C’era una piazzola di sosta, davanti qualche centinaio di metri. “Ci fermiano l“?” “Va bene”, e dalla borsetta, intanto, ha tirato fuori un astuccio e una confezione di fazzolettini di carta. Le ho chiesto se mi amava. “Dai, tira giu’ il sedile!” mi ha detto con un sorriso alla Gioconda, e “aspetta, aspetta… porca miseria! mi si e’ impigliata una calza… ecco, ho fatto”. “Allora? – le ho ripetuto – non hai risposto alla mia domanda…”. “Dai, vieni, sono pronta”. Un tir e’ sfrecciato veloce, vicino. Ha strombazzato a distesa e ha spostato tanta di quell’aria da far ondeggiare la macchina parcheggiata. “Mi fai impazzire! e io a te?” “S““““, pure… “. Il vetro laterale al posto di guida, un po’ appannato, si e’ abbassato. La mia mano sporge un attimo e lascia cadere qualcosa per terra. Ho acceso il motore. “Mi ami?” ho insistito. “Dai, sbrigati, e’ tardi!”. Stridio di copertoni. Nella piazzola e’ rimasta solo un po’ di gomma nera sull’asfalto, oltre alla mia domanda senza risposta.

Anna
Ho un leggero senso di amaro in bocca. Qualche cosa sembra non quadrare e me ne sento condizionato. Ci riprovo in mansarda. Aspetto l’arrivo di Anna. Quando i due suoni convenzionali del citofono mi avvertono dell’arrivo di lei, apro la porta d’ingresso e mi avvio verso la camera da letto. Penso di sfilarmi i calzoni. Li sistemo, con cura, sull’asticella del porta-abiti. La porta d’ingresso si chiude alle spalle di Anna. Sono gia’ in slip, calzini e canottiera. “Brr… che freddo”. Sollevo le coperte e mi infilo a letto. Guardo la donna. Ha gia’ tolto la gonna e la maglietta. Collant e reggiseno, si muove verso la poltroncina d’angolo. Poggia sul sedile i due indumenti. Si siede in fondo al letto per sfilarsi il collant. Lo fa con attenzione per evitare inconvenienti di smagliatura. Poi, tre passi in punta di piedi, si infila sotto le coperte, alla mia sinistra. Approfitto di quei tre passi per darle uno sguardo addosso. “Che bel fisico che hai!” “Trovi?”, risponde lei. Ci abbracciamo. La coperta fino a sotto il mento. Vorrei parlarle. Vorrei farmi prendere. “Senti… io…”, ma lei si e’ girata in posizione supina. Un dubbio di essere rimasto solo mi spinge a salirle sopra. La coperta si solleva all’altezza dei glutei. Si abbassa. Due mugolii di piacere. Altri due a tono un po’ piu’ alto. Uno stop nell’azione.
La testa mi ricade vuota sul cuscino. Lei si alza e si avvia verso il bagno. Davanti allo specchio controlla sotto il collo, passandosi un paio di dita sulla parte destra. Resto a letto. Anna esce dal bagno e comincia, in fretta, a rivestirsi. La vaschetta dello scarico si sta riempiendo. Lo scroscio d’acqua accompagna la voce di lei che mi saluta: “Ciao! vado via. Ho un sacco di cose da fare”.
“Aspetta un attimo!” riesco a trattenerla.
“Che c’e’ ancora?”
“Come, che c’e’?”
“Mbe’! Perche’ mi fai perdere tempo?”
“Scusami… – continuo – volevo sapere se tu…?”
Lei mi guarda e mi rassicura, quasi materna: “Dai che lo sai che con te mi piace farlo! Ti telefono piu’ tardi”. La porta d’ingresso della mansarda si chiude alle spalle di Anna.

Qualche cosa manca. Sono certo. Quello che si vive non e’ piu’ quello che si e’ scritto e non si puo’ piu’ raccontare quello che piu’ non si vive. Ci ha lasciato. Ha cambiato mondo. Non ha piu’ trovato persone da promuovere a personaggi e si e’ stancato di personaggi precipitati in misere persone. Intorno, dove e’ adesso, il buio e’ fitt e’ freddo. Miliardi di stelle nitidissime, davanti. Presto diventeranno frontiere di nuove speranze. Il terzo pianeta del sistema solare e’ gia’ dimenticato, alle spalle. I suoi verdi e i suoi blu erano belli. Era bello il giorno e il vento e le farfalle sui fiori e il cantilenare delle rane quando la sera era d’estate.

Marta
Per conto mio, per fortuna, ho trovato, tra gli annunci sul quotidiano, quel numero di telefono di Marta. Accendo il viva voce dell’impianto veicolare. Zero… cinque… cinque… tre… sei… sei… sette… due… nove… nove… quattro… tuuu… tuu…
“Pronto – una voce dolcissima – sono la tua Marta”.
“Ciao Marta, sono io, Giovanni”.
“Oh, caro il mio Giovanni… sei quello di ieri sera, vero? Quello che mi ha detto che mi ama?”
Giovanni: “S“, e vero!”
Marta: “E ti piaccio, pure?”
Giovanni: “S“, mi fai sbavare!”
Marta: “Ma… se non mi hai nemmeno mai vista!”
Giovanni: “Ma… per telefono e’ come se ti vedessi”
Marta: “E se ci incontrassimo?”
Giovanni: “Basta mettersi d’accordo con un po’ di anticipo”
Marta: “D’accordo sul prezzo?”
Giovanni: “Mbe’, anche per quello, e per il tempo, e per il dove e per il cosa!”
Marta: “Io faccio tutto quello che tu vuoi!”
Giovanni: “Vanno bene trecentomila?”
Marta: “Per mezza giornata!”
Giovanni: “Posso anche passarti a prendere tra un’ora, se sei libera… ho una macchina di gran scena… puoi?”
Marta: “Ok, mi libero!”

Fermati la’
Pablo ha visto gli occhi di una donna color di luna, l’agilita’ dell’aria, una settimana d’ambra, un momento giallo quando l’autunno sale su pei rampicanti. Oramai il Pianeta e’ piccolo in lontananza. Non pentimenti. Non rimorsi. Non c’era piu’ niente da fare. Tutto dimenticato. Ancora una voce grida. Supplica di ascoltarlo. e’ l’amico Jacques:

Fermati la’
La’ dove sei
La’ dove sei stato altre volte
Fermati
Non muoverti
Non andartene
Noi che siamo amati
Noi ti abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre
E non importa dove
Dacci un segno di vita
Molto piu’ tardi ai margini di un bosco
Nella foresta della memoria
Alzati subito
Tendici la mano
E salvaci.

P.S.: Liberamente ispirato a:
Dante Alighieri, La Divina Commedia
William Shakespeare, Giulietta e Romeo
Edmond Rostand, Cirano di Bergerac
Ferdinand Celine, Viaggio al termine della Notte
Jorge Amado, Dona Flor e i suoi due mariti
Pablo Neruda, Cento sonetti d’amore
Jacques Pre’vert, La risposta

Arnaldo Graglia, direttore spirituale del centro buddista Mandala di Milano, e’ stato riconosciuto nel 1995 come la reincarnazione di Je Paljin, insigne Lama tibetano del XV secolo.

Dal significato “altro” della parola all’unione con le vibrazioni universali. Un modo occidentale e un modo orientale di comunicare con il nostro centro

Da tempo immemorabile la parola e’ uno dei mezzi piu’ efficaci con cui l’uomo cerca di contattare il profondo della propria coscienza. In molte tradizioni antiche essa rappresenta il primo passo di un percorso rituale che tende a ricavare dalla potenza delle parole la spinta necessaria per raggiungere quegli stati psichici che caratterizzano i piu’ elevati momenti mistici. Tutte le scuole esoteriche basavano l’essenza del proprio operare sull’alfabeto e sui significati “altri” delle parole, che permettevano a pochi adepti di comprendere un linguaggio accessibile soltanto agli iniziati.
In occidente e’ significativo il fenomeno della lingua degli uccelli, una forma espressiva usata dagli alchimisti e dagli studiosi di scienze ermetiche. In oriente e’ parimenti illuminante l’uso dei mantra, applicato nei monasteri tibetani e, prima ancora, dai grandi yogi induisti.

Parole che arrivano dall’inconscio
La lingua degli uccelli sta a indicare un lessico che attiva i piani di coscienza superiore e permette di comunicare con gli angeli, ovvero ci porta a sintonizzare la nostra sensibilita’ su valori simbolici che aprono la mente a esperienze interpretative diverse, distinguendo tra cio’ che si vede e cio’ che si vuol vedere nella decifrazione dei singoli fonemi. Le parole hanno infatti piu’ di un senso, a seconda che a usarle sia un iniziato o un profano.
Le chiavi di lettura dei vocaboli contenuti in questo lessico hanno due valenze: una interiore e l’altra esteriore. Esteriore per la comunicazione convenzionale. Interiore per aprire nuovi orizzonti alla mente. L’uomo moderno e’ spesso portato a vivere il proprio rapporto con la parola in un modo distaccato e superficiale, lasciandosi trascinare dalle impressioni legate al senso comune dei vocaboli. Ma le parole possono arrivare direttamente all’inconscio e generare stati emotivi di imprevedibile intensita’.
Esse costituivano in passato e costituiscono oggi il fondamento della poesia, in latino carmen, termine che potrebbe prestarsi, per esempio, a una ricerca sulle affinita’ fonetiche con karma, e che allora si riferiva a canto con cui gli aedi potevano anche fare previsioni oracolari. Da qui la definizione di in-cant-esimo, esercizio di magia effettuato con il canto. Per lo stesso principio indovino deriva da in-divinus, cioe’ interprete del divino. E auspicio deriva da aves-spicere, ovvero osservare gli uccelli che con il loro volo davano segnali provenienti dagli dei e ne diventavano i messaggeri: donde il significato delle ali attribuite all’angelo, il messaggero. Nella lingua degli uccelli la parola viene svelata e si presenta pura alla mente dell’iniziato. La capacita’ evocativa delle lettere e la potenza vibrazionale del suono penetrano nel subconscio simili a un seme che produrra’ come frutti i veri simboli della conoscenza attraverso i quali ci si mette in connessione con le energie cosmiche primordiali. In questo contesto, la parola diventa il tramite per accostarci al linguaggio degli angeli, ovvero alla via dello spirito. Ma la parola, abbinata simbolicamente alla lingua fisica, che evoca la forma della spada a doppio taglio, e’ dotata di due potenzialita’: la forza creatrice e la forza distruttrice, e questo non va mai scordato.
Nella lingua degli uccelli la vocale A rappresenta l’inizio, la E il fuoco, la I il divino, l’asse della spiritualita’ che collega terra e cielo. Dunque apprendere significa a-prendere, ovvero conoscere dall’inizio. Individuo e’ uguale a individo-duo, cioe’ non divisibile per due. Divino sta a significare da-i-venire, ovvero venire da Dio. Vocale: vocal-e, chiamare il fuoco; piscis e’ pietra scissa, la pietra angolare; stabilire: su-tabula-ire, mettere fondamento; perire: andare-per-i, verso il divino. La lettera H significa incarnazione, per cui heroe, formato da h ed eros, vuol dire amore incarnato. In questo modo il linguaggio della tradizione, occultato da possibili diverse interpretazioni, concede soltanto a pochi eruditi di entrare nella sua segreta natura.

Il potere occulto del suono
Identico senso ha in oriente il mantra, che abbina inoltre, alle qualita’ evocative della parola, una tecnica scientifica in grado di sfruttare il potere occulto del suono. La sua recitazione provoca vibrazioni interiori e genera specifiche associazioni all’interno della coscienza. La pronuncia rituale dei mantra ha il potere di far acquisire o stabilizzare particolari stati di coscienza. Il mantra puo’ essere rappresentato da una sola sillaba o da un insieme di sillabe o di parole intere, le quali, ripetute incessantemente, hanno la funzione di attivare le energie del profondo, producendo risultati concreti che agiscono sul piano psicosomatico, ovvero psichico, fisico ed emozionale.
Il segreto dei mantra sta nel flusso vibrazionale armonico che coinvolge la voce del praticante, la sua mente, il suo corpo e le forze che muovono le energie dell’universo. La recitazione funge da filo conduttore tra alcune forze e la natura sottile dell’uomo comandata da centri psichici del corpo. La lettura dei mantra avviene su piani differenti: letterale – simbolico – vibrazionale – spirituale. A ognuno di questi registri deve corrispondere un’adeguata consapevolezza di colui che pratica. Di fatto il processo recitativo ha il compito di accompagnare il praticante verso una condizione di assoluta interiorita’ per attingere alle energie piu’ adatte allo scopo dell’operazione.
Dipendera’ dal nostro livello evolutivo la qualita’ e la quantita’ di potenza che possiamo ricevere. Passando dalla parola significante alla parola privata del suo significato letterale, per giungere, attraverso stadi successivi, alla parola vuota di qualsiasi simbolismo, quindi alla pura vibrazione sonora, che si trasforma in parola silenziosa, la recitazione del mantra conduce a una condizione non duale e non concettuale. Qui la mente si unisce all’assoluto, dove il tutto e il vuoto, il dentro e il fuori si identificano. Ed e’ allora che si sprigiona senza limiti la forza della parola, partecipe a questo punto del processo creativo universale: sia che ricerchiamo un supporto per meglio affrontare i nostri problemi materiali, sia che vogliamo raggiungere elevati obiettivi sul piano spirituale, il mantra ci fornisce la forza necessaria per ottenere il risultato prescelto. Perche’ il mantra e’ energia in azione.

Suona la sveglia. Buongiorno.
Giu’ dal letto, sibilo della caffettiera, sciacquone,
ronzio del rasoio elettrico, scroscio della doccia.
Fruscio dei vestiti sulla pelle, radio per tg.
Sbam, porta che si chiude, clang, ascensore.
Traffico, clacson, tram in arrivo, plin, obliteratrice, stridio di gomme
sull’asfalto, imprecazioni.
Clak, bollatrice. Rumore cretino, parte windows,
sventagliata di stampante, drin, telefono. Voci.
Piatti, tintinnio di posate. Giornale sfogliato, cassetti che sbattono.
Ci vediamo domani.
Ticchettio orologio, passi di corsa, accelerate e frenate.
Un cane abbaia, un bimbo piange. Sirena.
Tuono, vento che ulula, pioggia che batte, martello pneumatico.
Casa dolce casa.
Tv, sbadigli, smak, bacio, buonanotte.
Silenzio.

Clic… Clac… Clic… Clac… Tac. L’ultimo giro di ruota. La ruota dello skilift che mi ha lasciata sola in punta alla montagna. e’ un tardo pomeriggio di primavera, il sole e’ ancora alto, l’aria frizzante. Mozza il fiato cio’ che vedo quassu’. Parlare, impossibile, inutile. Il vento leggero accarezza i pini raccontando loro fiabe di mondi lontani, passa e se ne va giocando a mulinelli con il manto nevoso. Mi sposto di un poco con gli sci, la neve stride sotto i miei piedi, sembra urlare pieta’. Neve di primavera, che di prima mattina sei specchio al mondo che ti circonda, sono costretta a graffiarti per scendere e sotto le lamine affilate sentirti gridare ad ogni curva, mentre ti pieghi al mio passaggio. Piano piano sotto i raggi del sole ti fai grani di ghiaccio, tondi e luccicanti, piccoli diamanti preziosi che schizzano lontano sotto gli sci che ti attraversano. Ricordo com’eri morbida quando cadevi dal cielo. Intrecciavi danze fiabesche con le tue sorelle, confondevi il cielo alla terra e attutivi ogni suono, ogni rumore con la tua presenza. Leggera, fitta, nemmeno il batter d’ali di farfalla saprebbe riproporre il tuo silenzioso posarti. Ti appoggi delicata sui rami, sui tetti, ci riempi del tuo candore e del tuo silenzio.
Cri-Cri, suono di cicala sotto i piedi, cosi’ ci parli quando fredda e spumeggiante hai terminato di coprire le strade notturne. Il mattino dopo, proprio qui dove sono ora, partivo, sci ai piedi, per confondermi con te in mezzo ai pini, per immergermi, curva dopo curva, nel tuo alto manto. Ti sentivo cantare canti del nord, felice di dividere con me l’incanto dell’ultima nevicata. Insieme abbiamo trovato le impronte dello scoiattolo in cerca di cibo; insieme abbiamo pianto per il suo lungo inverno. Lo sento squittire adesso felice laggiu’ tra i pini, regina neve sta per rendergli cio’ che era suo. Un falchetto saluta il giorno che va, segnale di avviso a lasciare le cime prima del buio. Tac-tac-tac, chiudo i ganci degli scarponi, impugno i bastoni e via per l’ultima scivolata nel blu del crepuscolo. Amica neve che parli a chi ti ama, amica neve che giochi con chi ti ascolta, rimane la luna ad ascoltare i sogni dei tuoi lunghi sonni.

Salii sul monte sfidando i fulmini della collera del re di Babele. Era notte fonda quando arrivai al Grande Albero. Lui era li’ dall’inizio dei tempi. Il suo seme era caduto direttamente dalla mano creatrice di Dio. E lui aveva in se’ la saggezza originale, lo spirito del Verbo che in principio fu per chi volle ascoltare. E da allora la sua eco rompe il silenzio della solitudine. Mi inginocchiai ai piedi del Grande Albero e tenendo gli occhi rivolti alla terra gli parlai: “C’e’ qualcosa di oscuro che si frappone tra me e l’altro. Mi accorg la parola da sola, quella che fluisce senz’anima dalla bocca, non basta. Le parole sono convenzioni. Hanno perso la potenza. Chi puo’ stabilire se il mio “ti amo” significa “desidero il tuo corpo” oppure “ho bisogno di amare te” o semplicemente “per tutto cio’ che sei provo amore”? Chi puo’ stabilire il sottile confine? Chi se non chi proferisce la parola? E allora come e’ possibile dare potenza alla parola? La potenza che si fa comprendere al cuore dell’uomo…”.

La convenzione, la confusione
Il Grande Albero non mi fece andare oltre. Ricordo che sentii il vento che mosse i rami e le foglie larghe, fin quasi a far vibrare il tronco. E allora, una voce profonda come le sue radici parlo’ al mio cuore lasciandomi impietrito tra il terrore e lo stupore: “e’ la convenzione a generare confusione”, disse. “Babele e’ la nostra citta’. La convenzione e’ stabilita da chi appartiene al tuo mondo. Per gli altri, le tue parole sono incomprensibili. La convenzione e’ un’illusione di pochi. Come dare potenza alle parole? Fai scendere nel profondo della mente sottile, del cuore, sillaba dopo sillaba. Poi lasciale uscire, togliendole al controllo del pensiero. Oggi l’inganno e’ il non coraggio di ammettere cio’ che si e’. Nel bene e nel male. Essere e’ sapere in ogni attimo chi siamo e perche’ siamo. e’ avere il coraggio di ammettere cio’ che desideriamo. E poi, semmai, scegliere di desiderare ed essere altro. Consapevoli di aver scelto quello che riteniamo il bene per noi stessi. E quindi per gli altri. “Uomo che hai sfidato la collera del fulmine, il segreto della felicita’ e’ vivere ogni stato come momento speciale e unico per la propria crescita spirituale. Certi che poteva essere altrimenti se avessimo lasciato scorrere la vita su un crinale diverso. Senza esserci. O senza essere in quel modo. Ecco perche’ dare potenza alla parola e’ importante per esserci. Per non dover mai dire “volevo dire questo” o “non mi sono spiegato” o “non mi hai capito”. La non comprensione che fa rintanare i cuori nel gelo della solitudine. E perdere la gioia dell’esserci”.

Il deserto e l’ascolto
Mi accorsi di essere schiacciato sotto il Grande Albero. Ebbi la forza di spalancare la bocca con dolore, senza trovare le parole. Ma lui lesse i miei pensieri. E di nuovo parlo’. “Questo miracolo passa attraverso il deserto, uomo. La’ dove perfino la natura tace davanti al soffio del vento che ha la forza del Verbo. Il deserto e’ stata la palestra di Gesu’ Cristo e di Buddha Sakyamuni. Nel deserto la tua parola tace per lasciar parlare la parola dell’Altro. La mente si svuota per lasciarsi riempire dall’energia cosmica che spazza le dune. Il vento impetuoso e solenne che travolge l’orizzonte, spiana le montagne di sabbia e raddrizza i sentieri. Nel centro del deserto batte il cuore dell’ascolto. La’, dove nasce la comprensione dell’altro e del diverso. Capire non e’ altro che indossare le vesti dell’altro. Ed e’ maledettamente difficile abbattere il muro degli “io”. La strada di Dio e’ un’autostrada con miliardi di porte. Tante quante sono, sono stati e saranno i cuori degli esseri senzienti nei millenni della storia, sui pianeti dell’Universo. “Nel Verbo “Non giudicate”, non c’e’ minaccia. e’ solo l’avvertimento di un’occasione sprecata. Entrare nel cuore dell’altro, ascoltare la sua voce, parlare la sua lingua, conduce alla liberta’. Libera dalle convenzioni e dai pregiudizi. L’uomo e la donna si chiudono le porte perche’ non sanno piu’ ascoltarsi. La speranza finisce dove muore l’ascolto. E nasce la disperazione, la separazione, l’odio, la guerra. Alzati, uomo. Vai, scendi la montagna. Ascolta. E cambia il mondo”.

Gli anni che stiamo vivendo non lasceranno dietro di se’ grandi rimpianti. E’ infatti dal 1992 che attraversiamo, con preoccupazione, una situazione di crisi non solo mondiale e nazionale, ma anche e soprattutto settoriale. Tuttavia la definizione di crisi mi sembra calzante solo dal punto di vista economico. Quello che stiamo vivendo infatti e’ un momento del tutto particolare, sicuramente molto diverso da quello che ci ha preceduto e, facilmente, assai diverso da quello che verra’. Siamo in una fase di forte cambiamento e quindi necessariamente di difficolta’ e di insicurezza. Sono caduti i valori e le certezze che ci hanno accompagnato per moltissimi anni, ed ora dobbiamo lavorare per definire i nuovi valori che caratterizzeranno il prossimo secolo. Le certezze, invece, non saranno altrettanto facilmente ricostruibili, poiche’ il cambiamento sara’ talmente costante e talmente veloce che chi e’ abituato a pianificare per tempo il proprio lavoro si trovera’ in gravissimo imbarazzo.

Le nuove realta’ della comunicazione
In Italia il settore della comunicazione ha conosciuto, negli anni Ottanta, livelli di sviluppo che mai avremmo potuto prevedere e che spesso ha portato le nostre strutture ai limiti della ingestibilita’. Da qualche anno a questa parte, pero’, l’intero comparto si trova improvvisamente di fronte ad una inversione di tendenza, una generale contrazione degli investimenti che ha causato una brusca frenata come mai fino ad ora avevamo conosciuto. La difficile contingenza mondiale che ha coinvolto politica, economia e societa’, ha contribuito a delineare un panorama complesso e di non facile interpretazione; le aziende affrontano nuovi problemi ed hanno nuove esigenze che necessariamente dobbiamo condividere, risolvere e, ancora meglio, cercare di anticipare. Ogni cambiamento non procede mai con linearita’, e’ in bilico fra momenti di euforia per il nuovo e stati di sfiducia, tra tentativi di conservazione e tentazioni di abbandono.
L’ansia che ne deriva molto spesso genera timori ed incertezze che non lasciano intravvedere le potenziali opportunita’, sempre presenti in momenti come questo. Puo’ essere davvero la fine di qualcosa, ma nello stesso tempo sara’ l’inizio di qualcos’altro e, perche’ no, il nuovo puo’ anche rivelarsi migliore del vecchio. Oggi, chi spende il proprio budget in attivita’ di comunicazione tende a concentrare la propria attenzione verso una piu’ attenta valutazione del rapporto qualita’-prezzo del servizio e verso una piu’ attenta verifica dell’efficacia dei risultati.
La qualita’ del servizio e la professionalita’ diventano una vera e propria garanzia per l’utente. Dopo l’ubriacatura dell’immagine, tipica degli anni Ottanta, ci troviamo di fronte a scelte precise che evidenziano la volonta’ di comunicare cose piu’ reali e piu’ concrete. Oggi gli obiettivi della comunicazione non si fermano semplicemente alla ricerca del consenso o alla definizione della propria immagine. Si fa largo l’esigenza di avviare un sistema di relazioni stabili e costruttive con l’ambiente circostante, allo scopo di favorire lo sviluppo e la crescita dell’azienda nel contesto sociale ed economico.

La professionalita’ come antidoto alla crisi
Il professionista della comunicazione sa che deve e puo’ fare di piu’: non solo offrire la propria competenza tecnica e professionale ma, soprattutto, adeguarsi al cambiamento aiutando i propri clienti o datori di lavoro a comprenderlo e ad adeguarvisi a loro volta. L’ubriacatura dell’effimero ha quindi prodotto la necessita’ di tornare a dialogare con i consumatori da pari a pari e, inoltre, di dialogare con i nuovi pubblici, i propri dipendenti, la distribuzione, le associazioni dei consumatori e degli ambientalisti, le istituzioni.
Oggi, cosi’ lontani da quegli anni Ottanta nei quali apparire sembrava tanto importante, e’ venuto il momento di una comunicazione piu’ aperta, piu’ trasparente, che parli realmente dell’azienda, della sua mission, del suo ruolo nella societa’ e del suo modo di affrontare e di risolvere i problemi. Mi sono trovato spesso a dire ad aziende, enti, uomini politici ai quali prestavo consulenza, che si comunica cio’ che si e’. Molti lo hanno gia’ capito, altri lo capiranno, ma chi non l’ha ancora capito non trovera’ piu’ una collocazione nella comunicazione del terzo millennio.

Verso un nuovo umanesimo
Il mondo sta cambiando sempre piu’ rapidamente, lasciandoci intuire un futuro dai contorni ancora poco delineati, dove le necessita’ dei clienti e i ruoli tra cliente e professionista appaiono in costante trasformazione. Molti concetti ed alcuni miti tipici della nostra cultura di comunicatori, a distanza di pochi anni, appaiono ormai svuotati del loro significato e quindi del tutto superati. e’ il caso dell’onnipresente “manager”, una specie di superman in abito grigio che sociologicamente incarnava quell’ideale di efficientismo, supertecnicismo e successo che, secondo i piu’, dalla professione avrebbe dovuto progressivamente permeare ogni aspetto della vita quotidiana, dalla politica alla cultura, dallo spettacolo al sociale.
Tramontato l’entusiastico yuppismo e crollati i miti della societa’ dell’immagine, oggi ci ritroviamo in un momento molto delicato, nel quale appare fortissima ed impellente la ricerca del nuovo collegata con il recupero di valori forti: l’onesta’, la verita’, la solidarieta’. Questa tendenza ci impone la necessita’ di tornare ad umanizzare i ruoli nel mondo del lavoro e in tutti gli aspetti della nostra vita: l’uomo, quindi, come centro del sistema. Non e’ certo un’idea nuova, ma rimane un concetto forte che oggi puo’ aiutarci a superare l’attuale crisi di valori individuali e di ideologie collettive. L’apparato non puo’ essere sopra a tutto e prima di tutto, perche’ cio’ costituisce solo una spersonalizzazione, uno stratagemma ideato per sfumare i ruoli, favorire le coperture e rendere difficile l’attribuzione delle responsabilita’. I mali che ha prodotto questo sistema sono purtroppo ben visibili davanti agli occhi di tutti! A questo punto appare chiaro che stiamo entrando in una nuova fase che da molti e’ gia’ stata definita “nuovo umanesimo”. Protagonista assoluto torna ad essere l’uomo, inteso come individuo, che ha veramente qualcosa da dire e un ruolo da giocare. La persona, in sintesi, che grazie alle sue qualita’ riesce a meritarsi la fiducia ed il rispetto degli altri. Credo che nel prossimo millennio l’Essere vincera’ definitivamente la sua battaglia sull’Avere.
Il professionista della comunicazione e’ sempre in prima linea, spettatore privilegiato, seduto ai posti d’onore e nello stesso tempo attore instancabile di mille rappresentazioni, davanti ad una platea vasta come il mondo. Coinvolto come pochi nella realta’ che lo circonda, obbligato a dover recitare contemporaneamente il ruolo di spettatore e di protagonista, il comunicatore sente l’esigenza di conciliare la teoria con la pratica. Purtroppo non sempre queste due capacita’ procedono a braccetto. I teorici non gradiscono “sporcarsi le mani” con la pratica, e i pratici considerano la teoria come qualcosa di fumoso e di astratto. Queste tuttavia sono solo posizioni radicalizzate nel tempo e poco logiche perche’, in verita’, teoria e pratica dovrebbero essere sempre abbinate, poiche’ solo dalla loro unione puo’ nascere il meglio in tutti i campi ma, soprattutto, nel mondo del lavoro. Allo stesso modo oggi deve concretizzarsi l’incontro tra la capacita’ di pensare in termini globali e quindi generali e l’abitudine a saper affrontare concretamente i problemi contingenti.

Piu’ spazio alla creativita’: l’emancipazione dal tempo
L’attuale classe dirigente si sta dimostrando assolutamente incapace di trarre dalla tecnologia e dalle scienze organizzative tutti i vantaggi che esse sono gia’ in grado di offrire. Pensiamo al valore che i manager delle imprese danno al tempo lavorato; veniamo dai miti che hanno portato alla creazione di detti popolari tipo “il tempo e’ denaro” o “chi ha tempo non aspetti tempo”. Qualcuno avra’ anche guadagnato vendendo le agende “Time Manager”, ma forse dobbiamo ripensare alla questione tempo, poiche’ non sara’ l’orologio lo strumento per misurare la qualita’ del nostro lavoro. Reputare l’universo come un immenso orologio ci ha portato a considerare le persone come piccoli ingranaggi.
Oggi anche la grande stampa d’informazione inizia finalmente a percepire che i licenziamenti non sono piu’ appannaggio delle imprese in crisi e che occorre ormai scegliere tra un modello a bassa tecnologia e ad alta occupazione e un modello ad alta tecnologia e con una grande spinta di liberazione dell’uomo dal lavoro. Il sociologo Domenico De Masi ha ipotizzato, in un suo saggio, che rispetto alla liberazione dalla schiavitu’, che caratterizzo’ il medioevo, e alla liberazione dalla fatica, che ha caratterizzato la societa’ industriale, la liberazione dal lavoro si profila con caratteristiche sue proprie. Delegato alle macchine quasi tutto il lavoro fisico e gran parte del lavoro intellettuale di tipo esecutivo, l’essere umano conservera’ il monopolio dell’attivita’ creativa, che per sua natura ammette, assai meno di quella industriale, sia la divisione dei compiti, sia la scissione tra tempo di lavoro e tempo libero.
A differenza della disoccupazione, necessariamente vissuta con il dolore della miseria e dell’emarginazione, la “liberazione dal lavoro” ammette forme di vita ben piu’ libere e felici; non solo una maggiore agiatezza diffusa, ma anche una maggiore autodeterminazione dei compiti, un’attivita’ intellettuale piu’ ricca di contenuti, maggiore importanza data all’estetica ed alla qualita’ della vita, maggiore spazio per l’autorealizzazione soggettiva. In tutta Europa si guarda con angoscia ai milioni di disoccupati, ai figli nati da genitori che non hanno mai lavorato e l’angoscia che tutto cio’ provoca ci dice che non viene compreso il cambiamento in atto, e che costantemente si cova la segreta speranza che la fine dell’attuale recessione cancelli tutto. Temo proprio che non sara’ cosi’, e non perche’ il futuro sara’ particolarmente nero ma, semplicemente, perche’ sara’ diverso. C’e’ una concorrenza ormai mondiale, che anche a distanza incide sui nostri salari; c’e’ una tecnologia che consente all’industria cio’ che e’ gia’ successo all’agricoltura: produrre molte cose in piu’ con molte persone in meno. Nella quasi totalita’ delle aziende e’ in atto, tuttora, una valutazione quantitativa del lavoro per cui un dipendente e’ tanto piu’ apprezzato quante piu’ ore serali di straordinario non retribuito immola alla frenesia del proprio capo il quale, a sua volta, si costringe ogni pomeriggio a inventarsi qualche nuova, urgente incombenza, pur di trattenere i propri dipendenti oltre l’orario contrattato.
I neo assunti poi, sono cinicamente iniziati a questa grande farsa attraverso il tam tam informale secondo cui la futura carriera dipende proprio dalla loro disponibilita’ ad allungare la permanenza quotidiana in azienda. Si innesca cosi’ un circolo vizioso, per cui quante piu’ ore un impiegato resta in azienda, tanto piu’ estraneo diventa alla sua famiglia ed ai suoi amici, e, quanto piu’ estraneo diventa alla sua famiglia ed ai suoi amici, tanto piu’ si sente a suo agio solo tra le mura del proprio ufficio e tende a restarci piu’ a lungo. Leo Longanesi parlava ironicamente del solerte funzionario che tiene per tutta la vita il ritratto dei cinque figli sulla scrivania e che, solo sul letto di morte, viene a sapere che almeno tre non sono suoi.

Un nuovo vocabolario per il terzo millennio
Abbandoniamo questa cultura da reggimento di fanteria, fatta di gerarchie, di simbologie. Espressioni quali la task force, le campagne di vendita, aggredire il mercato, andare alla conquista di nuovi clienti, sono tipiche di un concetto del marketing che ha distrutto le relazioni interpersonali attraverso un approccio strumentale al mercato. Prepariamoci ad un uso diverso del nostro tempo, ad una vita non piu’ povera, ma sicuramente piu’ incerta; non stiamo ad aspettare che le imprese riaprano i loro cancelli. Oggi e’ inevitabile, per chiunque operi nella societa’ contemporanea, affrontare il problema delle relazioni. Si dovra’ passare dal comunicare “a qualcuno” al comunicare “con qualcuno”. Credo che il salto di qualita’ sia il passaggio dalle relazioni pubbliche alle relazioni interpersonali basate sulla reciproca credibilita’ e sui reciproci scambi di conoscenza. Il tempo in cui le aziende e i loro vertici ritenevano che la comunicazione si risolvesse nel “comunicare a” ritengo sia finito per sempre.
Questo non tanto perche’ vi sia una maggiore democrazia economica, quanto perche’ le regole del consenso riguardano ormai tutti e impongono di dialogare con crescente chiarezza con persone sempre piu’ mature. Il concetto di target, il concetto di opinione pubblica, il concetto di clientela, il concetto di consumatori sono definitivamente superati. Il marketing, con miopia, ha distrutto le relazioni fra le persone fingendo di crearle. Infatti, si e’ certi di parlare con tutti ed in realta’ non si parla con nessuno. Il marketing ha favorito spesso approcci strumentali verso un mercato di consumatori che sono e restano degli sconosciuti. L’evoluzione nel mondo della comunicazione e’ stata enorme ma, come tutti sappiamo, negli anni Ottanta, l’obiettivo e’ stato solo quello di ottenere un consenso emotivo, imbellettare la realta’, badando bene a non modificare realmente lo status quo.
La comunicazione integrata, punto d’arrivo dell’evoluzione della nostra professione, e’ in netta antitesi con il mio concetto del comunicare. Essa si basava infatti sull’integrazione delle tecniche considerando le relazioni pubbliche un segmento tra gli altri che componevano il marketing mix. Abbiamo chiamato la professione sempre con nomi diversi, da “relazioni pubbliche” a “relazioni esterne”, da “relazioni esterne” a “comunicazione globale”, da “comunicazione globale” a “comunicazione integrata”, perfino “marketing communication”. L’unica salvezza per imprese e professionisti e’ oggi il ritorno alle origini, alle relazioni interpersonali.

Le relazioni interpersonali sono l’opposto della marketing communication, in realta’ non sono neppure uno strumento della comunicazione: esse sono dialogo. Tutti gli strumenti della comunicazione, dalla pubblicita’ alle promotion, dal direct mail al telemarketing, dalle vendite televisive alle sponsorizzazioni, non sono tesi al dialogo, ma al convincimento.

La comunicazione come sinonimo di dialogo
Le relazioni interpersonali non esistono perche’ esistono le imprese, non esistono perche’ esiste il mercato in cui esse operano. Esse esistono perche’ esistono gli uomini che hanno necessita’ di colloquiare tra loro, quindi di porsi in relazione. Dopo la stagione reaganiano-thatcheriana che ha esaltato il profitto, l’efficienza e la meritocrazia, oggi si chiede trasparenza, ecologia della comunicazione, morale negli affari. Una societa’ yuppie basata su uno sfrenato carrierismo e sull’egoismo sta lentamente crollando con i suoi status-symbol. La nostra professione non puo’ piu’ gestire una comunicazione in buona misura propagandistica, in anni in cui esibizionismo, presenzialismo e divismo sono divenute parole vuote e senza significato.
Negli anni scorsi e’ stato detto che si stava passando dall’economia dello scambio, all’economia del giudizio; oggi penso che sia necessario recuperare il concetto di responsabilita’ sociale dell’impresa, che significa operare come soggetto sociale inserito nella realta’ nella quale si opera. Se dunque il profitto non puo’ essere un fine, ma una conseguenza del lavoro di piu’ persone, la legittimazione dell’impresa sara’ la sistesi di tutte le azioni ed i comportamenti che indicheranno la qualita’ dell’operato. Il crollo delle connivenze fra impresa e politica ci porta a una diversa visione del business, che non puo’ essere che strategica.
Cio’ significa smettere di agire attraverso le furbizie, le scorciatoie, i mezzucci, e trasformare radicalmente la concezione stessa dell’impresa. e’ in questa visione che la comunicazione potra’ riassumere tutta la sua valenza strategica poiche’, in un simile scenario, le aziende non avranno piu’ una clientela o diversi pubblici, ma avranno solo relazioni interpersonali. Sempre piu’ forte dovra’ essere nella nostra professione il concetto di messaggio di ritorno. Basta, con il comunicare per cambiare gli atteggiamenti altrui: e’ ora di comunicare per cambiare i nostri atteggiamenti!

L’ascolto come alternativa al rumore
In un tale scenario la funzione dell’ascolto e’ sicuramente piu’ importante di quella della parola. Dovremo riuscire ad ascoltare rumori dove gli altri pensano ci sia solo silenzio. Dovremo essere sempre piu’ esperti nel cogliere i segnali deboli della societa’. Infatti non e’ con le statistiche o con le ricerche di mercato che l’impresa potra’ intrattenere le proprie relazioni con il mondo che la circonda. Non si puo’ partire dalla centralita’ dei numeri, ma dalla centralita’ dell’individuo; non si possono giudicare le persone attraverso i numeri; solo mettendoci in una dimensione di ascolto potremo allargare a dismisura i nostri elementi di giudizio.
So che non e’ facile mettersi in una dimensione di ascolto, nel momento in cui il rumore e’ tale da non permetterci di distinguere una voce dall’altra. Heidegger diceva che il silenzio e’ la condizione per ogni tipo di comunicazione, che il silenzio e’ all’origine dell’ascolto. Cosa significa questo? Significa che oggi abbiamo esagerato. C’e’ troppa comunicazione e la nostra professione deve contribuire a un disinquinamento dell’informazione; siamo persino giunti all’aberrazione che si pubblicano le notizie sui giornali affinche’ si sia certi che esse siano accadute. Uno degli obiettivi che dovremo darci e’ quello di comunicare meno, ma in modo piu’ profondo, non rincorrere cioe’ la quantita’, ma la qualita’ delle relazioni. Mettersi in relazione significa conversare, c’e’ questa voglia di dialogo, di mettere le cose in comune. Arriverei a dire: voglia di creare un rapporto amichevole fra chi da’ l’informazione e chi la riceve. Negli ultimi anni mi sembra si sia cercata l’efficacia piu’ che la verita’, si sia cercato il consenso piu’ che la critica, ma io sono certo che questa e’ una strada sbagliata.
Il Cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, ha dett ÇNon si puo’ restringere a tecnica cio’ che tocca la dignita’ dell’uomo come la comunicazioneÈ. Forse, oltre a cio’ che e’ stato detto fin qui, negli anni Ottanta la nostra professione ha anche subito una sorte apparentemente positiva ma, in realta’, letale. e’ stata una professione di moda, e’ stata una professione di successo, e’ stata una professione vincente. La peggior cosa che possa succedere a una persona, a un oggetto, a una professione, e’ essere “di moda”. Infatti il successo e’ il livello piu’ alto della crisi, chi ha successo non pensa piu’ a crescere, non pensa piu’ a imparare cose nuove, non pensa a formarsi, pensa soltanto a mantenere il successo ottenuto, a restare di moda. Tutti coloro che si sentono realizzati, arrivati, appagati, in realta’ stanno gia’ morendo. La crescita infatti non e’ il mantenimento delle posizioni, e crescere e’ il solo segreto del successo. Inoltre, chi vince non apprende mai nulla; non si impara dagli applausi, non si impara dalle adulazioni, si impara dalle sconfitte.

Un’Italia estranea alla cultura del rischio
Ansia, incertezza, insicurezza sono i tratti dominanti della scena socio- economica. Il risvolto piu’ allarmante e’ che nemmeno le e’lite, gli intellettuali, i ricercatori riescono a darci, a breve-medio termine, una visione di sicurezza e di benessere.
Oggi anche questi opinion leader e questi studiosi ci parlano solo di incertezze e di rischi, di scarsa prevedibilita’ degli eventi, di una societa’ sempre piu’ complessa dove pochi sembrano avere una reale volonta’ di gestire le sfide e di compiere scelte responsabili.
Oggi, a ogni livello – individuale, familiare, sociale, economico e politico – vige una sola cultura: la cultura del rischio. Infatti in presenza di incertezze cosi’ elevate verra’ richiesta, ogni giorno, a tutti noi, l’assunzione di alti rischi. Oggi in Italia non mi sembra che la cultura del rischio sia molto diffusa, neppure fra la classe imprenditoriale che dovrebbe essere, per tutti, un esempio di questa cultura. Dovremo cominciare per forza ad amare questa incertezza e l’insicurezza che essa comporta, dovremo cominciare per forza ad amare il caos e a viverci dentro e a capire che questo caos non necessariamente produce situazioni negative. Certo, ci vorra’ coraggio, per uscire ogni giorno nel caos che ci circonda. Ci vorra’ costanza, per perseguire i nostri obiettivi che saranno ostacolati piu’ volte al giorno. Ci vorra’ pazienza, perche’ le cose avranno tempi sempre piu’ lunghi. Ma forse quelli che riusciranno ad avere questo coraggio, questa costanza, questa pazienza, usciranno veramente dalla situazione di stallo attuale e si incammineranno verso la comunicazione del terzo millennio.

“La settima notte accadde che il suo udito per alcuni momenti si moltiplico’. Elias non solo percepiva tutti i rumori del proprio corpo, ma in un certo modo li udiva o li vedeva dall’intern le sfumature infinitesime dei rumori fisiologici, sovratoni e infratoni, fino alle minime vibrazioni del suo cuore ormai disordinato. Non gli fu dato udire di piu’, perche’ Dio l’aveva abbandonato”

I coccoloni
Non avrei forse ricordato questo passo del bel libro di Schneider, Le voci del mondo, se anche a me, a fine 1994, non fosse venuto un coccolone. Non proprio come a Maffei, ma di coccoloni che ti cambiano il volto dell’esistenza ce ne sono di tanti tipi. E ti costringono, che tu lo voglia o meno, ad ascoltare altro da cio’ che appare la tua inquieta normalita’. Inizi timidamente a guardarti e ascoltarti dentro, cerchi quella che molti chiamano la voce interiore, cosi’ annebbiata da un eccesso di comunicazione con l’esterno. Ed e’ cosi’ che, volente o nolente, i coccoloni ti possono far trapelare vie nuove per il senso dell’udito; prima lentamente, poi improvvisamente, inizi a percepire qualche suono di quell’accordatissima orchestra interiore che purtroppo, come si legge in Schneider, si rivela solo in esperienze di vita estreme

Il rebirthing e la voce interiore
Con le tecniche del rebirthing ho potuto avvicinarmi, seppur per poco, all’ascolto interiore e ho appreso, almeno, quale suono meraviglioso e spaventoso puo’ avere il nostro respiro. Che cosa e’ il rebirthing?
E’ la prima domanda che ho fatto all’amico che me lo ha proposto come panacea per tutti i mali. e’ una tecnica di respirazione orientale, che ha qualche attinenza con lo yoga. Consente, attraverso un particolare ritmo della respirazione, di entrare in contatto con se stessi, liberare paure e dolori e rivivere, a volte, la propria nascita. La prima parte della spiegazione mi convinceva e mi sembrava proprio azzeccata. Ricordo la prima seduta con Daniela, la rebirther: “Adesso respiriamo. Seguimi nel ritmo e ascolta il tuo respiro”. Io sono scettica, non ne capisco lo scopo.
Dopotutto respiriamo ventiquattr’ore al giorno, mediamente per settantacinque anni e, proprio qui sta il punto… non ce accorgiamo, non ascoltiamo. Io seguo le indicazioni di Daniela e mi concentro su un respiro nuovo e piu’ veloce del normale. Ecco che tutto il corpo comincia a formicolare e a far male, alcune parti sembrano paralizzarsi. Mi spavento (“e’ tutto normale”, dice Daniela) e mi sento svenire.

Da dolore a benessere
Penso che quell’incubo finisce e non ci rimetto piu’ piede. Respiro piu’ lentamente e, improvvisamente, il doloroso messaggio interiore provocato dal mio respiro passa e arriva un benessere mai provato. Mi sento senza forma e incredibilmente leggera. Esco per la strada, tutto mi sembra piu’ luminoso e io, dopo tanto tempo, mi sento felice.
Le sedute sono proseguite per qualche mese e non sempre in modo cosi’ rassicurante. Sentivo pero’ che piu’ imparavo ad ascoltare il mio respiro e a dirigerlo, piu’ sconfiggevo le paure e le negativita’. E cosi’ sono arrivata in dirittura finale e ho appreso un granello dell’immensa separazione tra la nostra cultura e quelle orientali, capaci da millenni di utilizzare sesti, settimi, ottavi sensi e ascoltare il respiro dell’anima. Ho capito che anche per noi e’ possibile avvicinarci a tutto questo. Ma e’ molto difficile, almeno per una massa critica adeguata, far convivere queste esperienze cosi’ straordinarie con il nostro quotidiano, dove l’ascolto, la lettura, e la comunicazione, avvengono spesso con lo scanner. E per forza di cose. Il ricordo indelebile appartiene a una delle ultime sedute. Comincio a respirare lentamente e senza nessuna aspettativa. Ci mette un po’ ad arrivare il solito formicolio, poi la paralisi alle gambe, le mani doloranti e accartocciate, ma questa volta non mi fermo a queste sgradevoli sensazioni, vado oltre senza fatica. Tutto passa, sento una grande armonia dentro, vedo immagini di vario genere, tutte belle e io mi sento incredibilmente felice. Continuo a respirare ed entro in uno stato di benessere supremo. Penso che io posso raggiungerlo quando voglio tutto questo, a portata del mio respiro, basta volerlo. Questo pensiero mi eccita moltissimo. Sta quasi per concludersi la seduta. Daniela mi conduce verso la fine con un esercizio di rilassamento. Improvvisamente smetto di respirare, e’ una sensazione unica e mai provata. Il mio corpo respira senza che io lo diriga. Io non muovo nulla, ma la mia anima si’, respira da sola. E che pienezza indescrivibile c’e’ nell’ascoltarla.

In infinite situazioni della vita capita di trovarsi ad ascoltare: lezioni, meeting, riunioni, colloqui, conversazioni al telefono, incontri di lavoro con colleghi, clienti, docenti, superiori… Eppure la maggior parte delle persone non sa ascoltare. Ascoltiamo, infatti, solo per il 25% delle nostre possibilita’. Cio’ significa che ignoriamo, dimentichiamo, deformiamo o non comprendiamo il 75% di cio’ che udiamo! Diane Bone, nel suo libro L’Arte di Ascoltare, edito da Franco Angeli, dice che l’incapacita’ di ascolto e’ uno dei problemi piu’ significativi con il quale le imprese devono oggi fare i conti. La riuscita del business si basa sulla comunicazione chiara. Quando questo non avviene, ne derivano errori che si pagano cari con minori possibilita’ di concludere affari, per la distrazione di chi dovrebbe ascoltare. I consumatori stessi si trovano a pagare, per lo stesso motivo, prezzi piu’ alti.
La pigrizia nell’ascolto e’ un costo aggiuntivo sotterraneo, ma sempre presente nell’attivita’ economica. Mettiamo il caso di una grossa multinazionale con diecimila dipendenti. Se ciascuno di essi commettesse un errore per il valore di centomila lire all’anno, la societa’ perderebbe un miliardo!
Ascoltare non e’ sinonimo di udire. L’ascolto e’ un atto volontario. Per essere un buon ascoltatore bisogna esercitarsi nella concentrazione. Nella tipica generazione televisiva attuale, tendiamo a non concentrarci mai a fondo, perche’ abbiamo fretta, siamo distratti da quello che si succede attorno, ci annoiamo, siamo stanchi, divaghiamo con la mente, sognamo ad occhi aperti. Il dono di saper ascoltare – dice sempre la Bone nel suo interessante libro – presuppone che chi parla sia dotato di un proprio valore e di una dignita’ e che abbia qualcosa da offrire. Invece di concentrarvi su voi stessi, provate ad incoraggiare la persona che vi parla ad esprimere le sue idee e ne sarete ripagati in futuro. Sviluppate l’attitudine all’ascolt i risultati vi dimostreranno che ne valeva la pena.

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E’ di Alessandro Lucchini il primo “Quaderno di Comunico”: il libro sulla comunicazione realizzato da Deus Editore. Lo presentiamo in anteprima ai nostri lettori

“Scrivo per un’infinita’ di ragioni. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera”. La frase di Beppe Fenoglio ha ispirato il nuovo libro di Alessandro Lucchini, edito da Deus Editore. A un titolo “ispirato” segue un sottotitolo, invece, molto concret “Consigli pratici per la comunicazione scritta nel lavoro”. Il libro si propone infatti, piu’ che come un manuale, ma come una composizione di teoria e di pratica, una rassegna di metodologie accreditate sul camp casi concreti, situazioni realmente accadute, con le testimonianze delle soluzioni adatte alle piu’ frequenti esigenze comunicative: dalla lettera commerciale al comunicato stampa, dalla newsletter alla circolare, dalla relazione per il convegno al curriculum (con uno sconfinamento, persino, nell’universo delle lettere d’amore).

Una raccolta di diverse esperienze
Si tratta di un libro sullo scrivere per lavoro, che l’autore ha realizzato unendo, alla propria esperienza personale, quella di un gruppo di amici, colleghi, maestri, riconosciuti specialisti delle proprie discipline: da Ugo Canonici e Claudio Maffei, autori della prefazione e della post-fazione, a Stefano Sandri, Ruben Abbattista, Mario Gualdieri, Mariella Governo, Mercedes Orioli, Renzo Barison, Ruggero Frecchiami, Carlo Cremona, Carla Brotto, Giovanni Rossi, Vittore Vezzoli, e altri. Professionisti che non si sono ancora stancati di dissodare terreni inusuali, sempre indaffarati, anzi, a scoprire nuove applicazioni per antiche dottrine. Un compagno di scrivania, dunque, una guida pratica, che presenta la scrittura non come un’attivita’ per pochi dotati, ma come una tecnica migliorabile con l’esercizio (la “fatica nera”, appunto).
Per questo il libro si rivolge non solo a professionisti di marketing, pubblicita’, relazioni esterne, ma a tutti coloro che scrivon venditori, promotori, responsabili del personale, organizzatori di eventi, studenti universitari e dei master orientati alla comunicazione, giovani alle prese con il proprio curriculum, segretarie con incarichi relazionali, operatrici telefoniche, etc. Un pubblico molto ampio, che puo’ trarre da questo libro diverse indicazioni utili per migliorare le proprie capacita’ di scrittura.

I temi trattati nel libro
Ecco i temi trattati nel libro.
– Scrivere una lettera
– Preparare una telefonata
– Realizzare una newsletter
– Redigere un comunicato stampa
– Stilare una circolare o un verbale di riunione
– Comunicare un evento
– Proporre una sponsorizzazione
– Preparare una relazione a un convegno
– Lanciare una campagna no profit
– Recuperare un credito o far valere altri diritti
– Scrivere un curriculum
– Il supporto della grafica
– L’ordine del discorso
– Recuperiamo la retorica: saremo piu’ creativi
– Le citazioni
– I luoghi comuni
– Editing: occhio all’ortografia
– La rivoluzione digitale: ipertesti e multimedialita’
– Internet: il piu’ grande ipertesto noto
– Fuori tema: le lettere d’amore

Mariella Governo responsabile ufficio stampa e relazioni esterne di Smau – Esposizione internazionale dell’Information and Communications Technology.

Non sara’ per il puro gusto della diversita’ che, in una raccolta di nobili pensieri sulla parola, arriva un elogio alla parolaccia. Immagino sia stata questa la reazione piu’ benevola al mio titolo. Tra le altre: come si puo’ elogiare la parolaccia, che ha contaminato i giornali, la tivu’, il linguaggio comune? Non avra’ mica figli questo qui, non dovra’ combattere le loro litanie contro i professori crudeli, i compagni bacchettoni, l’allenatore fascista, etc. Piu’ semplicemente: la potenza comunicativa della parolaccia e la sua diffusione in ogni ambito sociale, culturale e professionale mi pare meritino qualche considerazione.
Non azzardero’ qui un’analisi socio-linguistica della parolaccia, in particolare dei suoi aspetti negativi: dei casi in cui da’ realmente fastidio, quando e’ usata per offendere, quando e’ sintomo di disagio sociale, di pochezza intellettuale, quando insomma e’ specchio di ben altri problemi. Mi limitero’ a un’osservazione di costume, relativa soprattutto ai casi in cui, completamente desemantizzata, spogliata del ruolo di significato riferito a un vero e proprio significante (pensiamo al tanto di moda “az”), perde ogni carattere di volgarita’ per assumere un valore di puro divertimento, di formula piu’ simpatica e incisiva per comunicare.
Pensiamo alla politica, per esempio alla mitologia del “celodurismo”; pensiamo alla canzone, dallo storico “per i ladri e le puttane sono Gesu’ Bambino” di Lucio Dalla fino al catartico “Vaffanculo” di Masini, e oltre. Pensiamo alla letteratura, che offre esempi anche piu’ nobili. Molto prima delle “Storie di ordinaria follia” di Bukowsky, ecco il piu’ famoso verso dell’Inferno, censurato da tutti i professori, ma stampato come un’epigrafe nella memoria degli studenti: “ed elli avea del cul fatto trombetta”. La citazione dantesca, da cui potremmo risalire per trovare splendidi esempi nella letteratura latina o greca, serve qui a sostenere la tesi: viva la parolaccia, quando aiuta a esprimere un concetto. Senza abuso, senza volgarita’, ma anche senza falsi pudori. Il nostro linguaggio e’ cosi’ felicemente ricco di parolacce! Dal punto di vista relazionale, quasi, si potrebbero considerare l’indice della cordialita’ e della confidenza tra le persone. Spesso vengono prima dell’aperitivo, quasi sempre prima del tu.
Le usiamo nel lavor per impartire un ordine, rafforzare un augurio, scongiurare un pericolo, per commentare la pigrizia del collega, la conferma tanto attesa, la rampogna del capo (“rampogna”? meglio “cazziatone”). Oggi le usiamo abbastanza liberamente anche con i genitori, che abbiamo cominciato a educare intorno ai nostri sedici anni, con i fondamentali (casino, ciula, pirlata, etc.), e che ormai costellano i loro racconti delle assemblee condominiali o delle code al supermercato con energici “quello stronzo, quel rincoglionito, m’han fatto due palle”, etc. Le usiamo con i nostri figli, per avvicinarci a loro, per rallegrare ai loro occhi la nostra immagine, spesso indurita dalla poca frequentazione. Che orgoglio, poi, quando anche loro le usano a proposito! (Ricordo con tenerezza mia figlia, due anni, sul lungomare di Celle: dopo giornate inutilmente spese a familiarizzare col mare, finite sempre in strazianti suppliche di allontanamento, al primo giorno di brutto tempo, quindi senza il tormento degli esercizi con le onde, si piazzo’ di fronte al mare a gambe larghe, come per urlare piu’ forte, e con inusitata baldanza tuono’: “Mare, vai a tadare!”. Oggi e’ tenerezza; allora fu grande soddisfazione.) Le parolacce, insomma, fanno parte di quel sotto-linguaggio che ci divertiva molto, da piccoli, ricercare nel vocabolario, ma che oggi ci imbarazza ancora utilizzare nelle occasioni piu’ ufficiali.
Non ci vorra’ molto, pero’, perche’ esse acquistino pubblica dignita’ e raggiungano – se lo meritano – ogni nobile forma di espressione. Allora lo spregiativo “parolacce” restera’ solo come ruvida e pregnante nota di colore.

Curiculam Mario graviter miraris olere. Tu facis hoc: garris, Nestor, in auriculam.
Mitico, Marziale: questa frase mi ha sempre sconvolto, dal ginnasio in poi: “ti meravigli, o Nestore, perche’ l’orecchio di Mario puzza. Ma sei tu che gli stai parlando nell’orecchio”. Perche’ mi parla, con la chiarezza della metafora e con l’arguzia della satira, di quella difficolta’ che spesso abbiamo nel capire che spesso siamo noi stessi la fonte dei difetti che rimproveriamo agli altri; di come, cioe’, sia in noi stessi la causa…

Stop. Rewind. Play. Mi fermo, torno indietro, riascolto. No, per amor di Dio, non faro’ la fine di quei liberi pensatori che quando hanno una pagina a disposizione cominciano a teorizzare.

Volevo solo dire qualcosa su quella storia dell’orecchio di Mario che, quando incappa in un Nestore qualsiasi, dall’alito mefitico, che gli parla dentro senza freno alcuno, puzza. Volevo sforzarmi di sciogliere la metafora di quell’immagine, e cogliere la sua pregnanza – diciamo cosi’ – multimediale. Come? Marziale, epigrammista latino, indiscusso re della battuta di tutti i tempi, multimediale? Si’: l’orecchio che ascolta, la bocca che ci parla dentro, ma anche che ci fiata dentro, e il naso che si becca (reazione uguale e contraria) una tremenda zaffata. E poi l’immagine vera e propria. Come non vederla, infatti, quella scenetta di Nestore che parla nell’orecchio di Mario? Come non vedere i tanti Nestore che affollano le aule parlamentari, le redazioni di giornali, le stazioni di polizia, gli uffici delle aziende? Come non riconoscere, in Nestore, i suggeritori dei capi di partito, gli informatori dei giornalisti e degli investigatori, i galoppini dei manager? Ma anche quei tromboni che hanno sempre da dire su tutto?

Stop! Perbacco! Indietro di nuovo. Fermati e ascolta, ha detto il direttore! Possibile che neanche questo esplicito monito serva a controllare le parole, a stare nel tema? Torniamo, allora, a quella storia del parlare nelle orecchie.

Parlare nelle orecchie, comunque, non e’ educazione. Vale piu’ un bel vaffanculo, dritto a bersaglio, magari davanti a una folta platea, che un fiume di pissipissi-cippicippi nelle orecchie di mezzo mondo. Ma ecco che mi torna nelle orecchie quel brusio di fustigatori, quelli che ce l’hanno con tutto e con tutti, con la magistratura, lo stato di polizia, la finanziaria. Ce l’hanno anche con la fame nel mondo, proprio loro, che mangiano a quattro ganasce e che poi si scorticano di mea culpa quando leggono i dati della FAO. Mi tornano nelle orecchie, dannati, perche’ quel pissi-cippi non cambia la realta’, ma la perpetua, la ingessa, la soffoca, coprendola di alibi e di false intenzioni. L’orecchio di Mario sara’ pure fetido. Ma se vuoi fare qualcosa di buono, o Nestore, non parlarci dentr lavaglielo, semmai, magari anche restandotene in silenzio.

Una pagina bianca, in un numero che contiene piu’ di un elogio al silenzio, puo’ suonare come un monito (per chi ha orecchie per intendere).
Viceversa, e’ un invito rivolto a chi vorra’ animarla di parole.

Scrivete i vostri pensieri, a ruota libera, a:
“Comunico” – La palestra dei lettori piazzale Aquileia, 8 – 20144 Milano

La luce fu. I sostantivi si proposero come classe dominante di nomi indicanti persona o cosa, singola o collettiva.

L’era dei sostantivi
Tra i primi vennero il padiglione, il condotto, il palato, i denti, il pavimento, il timpano ed il labirinto. Dal punto di vista fisiologico e culturale della classificazione erano tutti rigidamente maschili. Attribuibili cioe’ all’ambito di quanto spetta al maschio della specie umana. Occorsero pero’ pochi attimi perche’ essi avvertissero una strana sensazione di mancanza di sostegno e di conforto. Subirono lo stato di esclusione dal rapporto di vicinanza altrui e desiderarono altre presenze a scopo di intimita’. Nella declinazione, in contrapposizione, lasciarono accesso ai femminili come genere grammaticale o naturale. Immediatamente arrivarono la membrana, la lingua, le labbra, le guance e l’ugola. Subirono la classica attrazione. I maschili elaborarono gameti destinati a fecondare quelli femminili. Magnificente fu il prodotto. Si combinarono padiglione e membrana a costituire l’orecchio. Palato, labbra, ugola, laringe, glottide fecero la bocca. La societa’ dei sostantivi affronto’ allora con rinnovata capacita’ la situazione del pianeta. Si scoprirono suoni, rumori, vibrazioni. Molti bisogni vennero soddisfatti, ma sempre in maggior numero ne apparvero all’orizzonte, desiderosi di riconoscimento.

La scoperta degli aggettivi
Si aguzzo’ l’ingegno e la trovata realizzo’ la scoperta degli aggettivi. Questi potevano avere terminazioni alteranti in corrispondenza col genere grammaticale o naturale dei sostantivi, ma soprattutto determinavano la qualita’ degli stessi o la loro situazione nell’ambiente. Attraverso i gradi rappresentavano inoltre la forza in senso relativo o assoluto. Significo’ avere, oltre alla bocca ed all’orecchio, anche una calda e bella bocca ed un grande e sensibile orecchio.

Il movimento nei verbi
La societa’ dei sostantivi, allargata agli aggettivi, restava pero’ disperatamente statica. C’era assoluta necessita’ di azione, di divenire, che si opponesse alla presente situazione, capace esclusivamente di indicare sostanza e qualita’. Fu inventato il movimento. I polmoni si mossero. Il diaframma si incurvo’, la gabbia toracica si affloscio’ e l’aria nella fase di espirazione imparo’ a salire su per la laringe, attraversando le corde vocali inferiori e superiori, fino alla glottide. Funziono’ l’ugola ed il complesso dei suoni si organizzo’ sotto l’azione accentratrice di un accento. Il muscolo del martello e della staffa si fecero reciprocamente antagonisti. Alla contrazione del primo, vibro’ la membrana del timpano, mentre a quella del secondo si percepirono i suoni.
La parola ebbe senso compiuto. Capostipite riconosciuto fu “il Verbo” e, nell’accezione cristiana, indico’ la seconda persona della Trinita’, il Figlio, cioe’ la parola di Dio ed anche il suo pensiero, come immagine perfetta del Dio stess in principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio e il Verbo si fece carne e abito’ tra noi. L’idea del movimento e della parola si rivelo’ ottima e consenti’ immediata accelerazione allo sviluppo dell’esistenza quotidiana con la costruzione dei verbi. Questi distinsero le categorie del tempo, della diatesi, del genere, del numero e della persona, naturalmente distinta con maggiore o minore chiarezza da morfemi, costrutti perifrastici o anche attraverso il solo contesto.
Fu la panacea di tutto. Dormire, svegliare, mangiare, fare, bere, guardare, odorare. Rigoglioso rinascimento si ebbe, ovviamente con il parlare o con l’ascoltare. Gli uomini e le donne perfezionarono l’apparato boccale ed uditivo. La lingua fu mezzo fonico di comunicazione e mezzo idoneo a manifestare i propri pensieri e sentimenti. La funzione materiale era connessa al fatto contenutistico. Conversazioni, colloqui, dichiarazioni. Commenti e previsioni intorno a centri di interesse comune con conseguenti specifiche ed evidenziazioni di argomenti o circostanze. Poi, in corrispondenza ad udire, prestando la propria attenzione o partecipazione a qualsiasi cosa in quanto motivo d’informazione o di riflessione.

I pronomi e il caos
La societa’ dei sostantivi, cresciuta dai maschili ai femminili, avanzata negli aggettivi, con l’allargamento ai verbi raggiunse lo stadio della perfezione. La societa’ parlava e la societa’ ascoltava. Tutti parlavano e tutti ascoltavano e tutti impararono a parlare e contestualmente ad ascoltare. Il successo fu pieno di pace, benessere e comprensione. Qualsiasi problema trovava soluzione di appianamento. Qualunque domanda si appagava in risposta. Ogni risposta tranquillizzava qualunque domanda. Venne pero’ un brutto giorno. Da un segreto laboratorio scientifico usci’ isolata una nuova particella. All’inizio sembro’ miracolosa. Fu chiamata pronome.
Serviva come parte variabile di un discorso, sostituiva il nome e permettendo praticamente di indicare, senza nominarli, esseri o cose dal punto di vista della quantita’ o posizione. Si distinsero in possessivi, riflessivi, dimostrativi, indefiniti, relativi, interrogativi, numerali e personali e furono proprio questi ultimi a dimostrarsi tragicamente subdoli allorquando nella loro sottospecie atona si accoppiarono ai verbi. Nessuno ne aveva previsto la malefica reazione. L’azione combinata provoco’ la nascita dei riflessivi e l’azione dei verbi si rivolse in parte, ma anche in tutto, sul soggetto. La societa’ fu invasa da mostri informi. Spegnere, amare, uccidere, ubriacare, si trasformarono in spegnersi, amarsi, ubriacarsi, uccidersi. Nuocersi in ogni maniera. I riflessivi raggiunsero anche il parlare e l’ascoltare. Divennero parlarsi ed ascoltarsi e significarono parlare compiacendosi unicamente del suono delle proprie parole. Fu il caos.
– gridavano i governanti e
– dicevano i padri.
– educavano gli educatori,
– comunicavano i giornalisti.

Come fermare la corsa?
Qualche sporadico gruppo di illuminati tento’ di combattere i riflessivi, ma tutto e tutti correvano ormai talmente veloci da rendere impossibile ogni tentativo. Ci sarebbe una sola cosa da fare. Fermare la corsa. Se bastasse un attimo potremmo forse trovare l’energia necessaria. Ma… se un solo attimo non fosse sufficiente?…

L’articolo qui riportato e’ stato tratto testualmente dal numero 625 del bimestrale letterario “Il verbo”, pubblicato nel novembre 2018. Ne rappresenta l’atto finale in quanto con tale numero il periodico chiuse in pratica la propria esistenza.

Fermarsi un momento per partire
prendere il respiro per capire
dove si sta andando
cosa si sta facendo

Fermarsi senza arrestarsi
fermarsi ascoltando
dentro se stessi
cosa si sta muovendo

Rincorrere i pensieri
che partono come proiettili
nel rumore degli spari
cercare il silenzio

Ecco che parlo
ecco che scrivo
ecco che sento
adesso

Leggendo qua e la’ nel mio consueto zapping letterario, disdicevole pratica che risale a quando mi occupavo di recensire libri, mi sono recentemente imbattuto in un ameno libello su usi e abitudini dei milanesi di cent’anni fa. Fra le altre cose si descrive l’ambiente sonoro in cui allora si trovava la citta’. Siccome la comunicazione e’ fatta di parlare e di ascoltare, spero che su questa rivista possano trovare posto alcune riflessioni su suoni e inquinamento acustico, un problema che caratterizza il quotidiano dell’uomo del Duemila. In periodi di detersivi biodegradabili, di scarichi di industrie e di automobili, di indistruttibilita’ della plastica, suppongo che cosi’ tanto vi sarebbe da dire che gli spazi redazionali a mia disposizione sarebbero sufficienti tutt’al piu’ per una frettolosa introduzione all’argomento. Di che cosa sto parlando? Guardatevi intorno, o meglio ascoltate all’intorno e capirete: il suono, trattato da un punto di vista ecologico, e’ storia, la nostra storia.
All’inizio, e’ lecito supporre, tutto era silenzio; la Genesi racconta infatti come il buon Dio creo’ cielo e terra e come essa fosse deserta; le tenebre ricoprivano l’abisso e sulle acque aleggiava lo Spirito (che, come e’ noto, e’ invisibile e silenzioso). Poi l’acqua si animo’ e corse finalmente il vento ad agitare felci e fronde, a sibilar tra i rami, a setacciare la sabbia dei litorali, a rasentare i picchi della montagna. Alla sua comparsa, dunque, il discendente di Adamo trovo’ tutt’intorno a se’ un fermento sonoro gia’ bell’e formato. Egli viveva in un ambiente caratterizzato – da un punto di vista acustico – dalla possibilita’ dell’alternanza tra i suono ed il silenzio e, a sua volta, era in grado di provocare arbitrariamente, pur senza rendersene conto, l’avvicendamento dei due fenomeni. Queste affermazioni potranno sembrare lapalissiane, ingenue; tuttavia, se si prova a immaginare la storia sotto questo aspetto, ci si rende conto di quanto diversa sia la realta’ oggi. In tempi piu’ recenti il Manzoni raccontava come ogniqualvolta passasse un carro egli smettesse di parlare; concetto estremamente eloquente su quello che doveva essere il fracasso in citta’. Oggi un carro passa inascoltato. Nelle metropoli del tardo Novecento un tappeto sonoro monotono, senza mutamenti, ci accompagna costantemente.
Dalla finestra del mio studio mi giunge, incessantemente, ovattato ma tenace, il rumore del traffico della citta’. e’ un continuo, un accompagnamento a tutti gli atti della mia giornata: il telefonare, il conversare, addirittura lo stesso ascoltare musica, sono tutte operazioni che vanno sovrapposte a questo fruscio che fa da rumore di fondo ostinato. Un altro dato di fatto reale e’ che l’uomo oggi non canta piu’. Obbligato ad adattarsi a un suono meccanico monotono e ossessivo, egli non puo’ piu’ contare sul dipanarsi di una linea di “basso” che con le sue variazioni crea il naturale sostegno a un avvicendamento melodico. Per cui, non potendo cantare, egli tace. E ascolta. Ormai siamo come esposti a un bombardamento di decibel cosi’ esasperato che, in sua assenza, ci sentiremmo smarriti e boccheggianti: provate a dare la liberta’ a un canarino nato in gabbia e guardate l’effetto. Le nuove generazioni che si sparano nelle orecchie a tutto volume la musica dal walkman, dalle autoradio o nelle discoteche, chissa’ come reagirebbero in presenza di un ristoratore silenzio! L’uomo ha sempre temuto il silenzio perche’ esso e’, nella cultura occidentale, il niente, la negazione dell’essere, pertanto la negazione della vita e, oggi piu’ che mai, il fracasso a tutto volume e’ sinonimo di isolamento, di asocialita’ e di qualunquismo ma, bene o male, anche di esistenza. Siamo come circondati in una sacca che si restringe: l’orizzonte che ci avvolge si sta riducendo sempre di piu’. Da fonti letterarie apprendiamo, per esempio, che Chateaubriand nel 1791 (anno in cui mori’ Mozart) affermo’ di aver udito il fragore della cascate del Niagara da una distanza compresa fra i 10 e i 13 chilometri. Poiche’ sappiamo che l’udibilita’ nel 1985, nella stessa zona, era di 8,5 chilometri, possiamo avere un’idea della differenza del livello sonoro nelle due epoche. Va da se’ pensare che un secolo fa, a Milano, le campane di Sant’Ambrogio si potessero udire da Brera: oggi e’ tanto sperare di sentirle da Corso Magenta.
Tuttavia ogni tempo ha la musica che si merita, e quindi non e’ un caso che il nostro tempo – caratterizzato dalla nevrosi del continuo apparire per valere, a scapito di piu’ profondi contenuti, da un consumismo piu’ che velleitario, causa di un vanaglorioso sbandamento sociale – non e’ un caso, dicevo, che si produca musica come la “disco” o la “heavy metal”, in cui non esiste piu’ prospettiva tra primo piano e sfondo, fra melodia e accompagnamento, in cui tutto sembra appiattirsi in una confusa poltiglia. e’ l’esatta riproduzione di cio’ che io sento dal mio studio. Spero che le nuove generazioni siano piu’ sensibili della nostra a un intervento ambientale che sappia prevenire anziche’ distruggere, preservare e non eliminare quanto di buono rimane, e attingano pure alle proposte oltre oceano, ma sappiano avere un occhio (o un orecchio) di riguardo anche per la vecchia Europa, che, in fatto di spiritualita’, ha sempre molto da insegnare. E pensare, poi, che il suono piu’ amato in ogni parte del mondo e’ il ronfare del gatto.

Piaccia o non piaccia e’ cosi’: sono le guerre che fanno progredire la tecnologia. E non solo quella. In occasione delle guerre si studia come gestire le piu’ diverse situazioni, ivi comprese quelle relative al marketing e alla comunicazione. E se in tempo di guerra era stato lanciato lo slogan “Taci, il nemico ti ascolta” e’ forse perche’ si era capito che tacendo si evitava di far conoscere cose al nemico e che al tempo stesso si potevano apprendere cose da lui. Perche’ per capire e per sapere, bisogna ascoltare. Molti credono che la comunicazione sia “parlar” bene. No. e’ ascoltare bene.
Questa e’ una delle prime cose che si insegnano nei corsi per venditori: non parlare, ascolta. Lo stereotipo che forse abbiamo del buon venditore e’ quello dell’amicone, giovialone, con la barzelletta sempre pronta che ti invade la casa con le sue spazzole e le sue tante chiacchiere. Una volta, forse. Ora non e’ piu’ cosi’. Oggi piu’ che mai “un bel tacer non fu mai scritto”. Bisogna imparare a tacere, per poter ascoltare. Ascoltare ad esempio i tanti rumori di cui e’ intriso il silenzio. Ascoltare tutto cio’ che il mondo esterno ha bisogno di farci sapere. Ascoltare il tacere degli altri. E, soprattutto, taci per poter udire piu’ spesso una voce che forse sarebbe importante ascoltare di piu’. La tua.