Dalla prima pagina del saggio “Come un romanzo”, di Daniel Pennac, Feltrinelli 1993.
Il verbo leggere non sopporta l’imperativo… come il verbo “amare”… il verbo “sognare” … Naturalmente si puo’ sempre provare. Dai, forza: “Amami!” “Sogna!” “Leggi!” “Leggi! ma insomma, leggi, diamine, ti ordino di leggere!” “Sali in camera tua e leggi!”
Risultato. Niente. Si e’ addormentato sul libro.
All’improvviso la finestra gli e’ apparsa su qualcosa di desiderabile, e da li’ e’ volato via, per sfuggire al libro. Ma e’ un sonno vigile, il libro e’ ancora aperto davanti a lui e se aprissimo la porta della sua camera, lo troveremmo seduto alla scrivania tutto preso dalla lettura. Anche se siamo saliti con passo felpato, dalla superficie del sonno ci avra’ sentiti arrivare.
“Allora, ti piace?”
Non ci rispondera’ di no, sarebbe un delitto di lesa maesta’. Il libro e’ sacro, come puo’ non piacergli leggere? No, ci dira’ che le descrizioni sono troppo lunghe. Tranquillizzati, torneremo alla nostra televisione…
I Diritti imprescrittibili del lettore
1. Il diritto di non leggere
2. Il diritto di saltare le pagine
3. Il diritto di non finire un libro
4. Il diritto di rileggere
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
6. Il diritto al bovarismo (malattia testualmente contagiosa)
7. Il diritto di leggere ovunque
8. Il diritto di spizzicare
9. Il diritto di leggere a voce alta
10. Il diritto di tacere
P.S. Questo e’ un NON – EDITORIALE, ma questo numero e’ talmente bello, che quasi quasi userei l’imperativo. Leggi!
Camillo si era ridotto a una larva, privo di passioni e di stimoli vitali, con un unico rovell che qualcuno gli plagiasse il romanzo. Assurdo? Forse…
Camillo Damiani era un giovane di 33 anni, tante speranze e una sola realta’ che si chiamava disoccupazione. Aveva una laurea in egittologia e una specializzazione in sceneggiatura cinematografica che gli era valsa la pubblicazione della tesi. Poi, nulla. Si era barcamenato in lavoretti di poco conto, sostenuti piu’ dalle ingannevoli promesse degli pseudo-produttori di turno che da concrete prospettive di carriera. Finche’ un giorno era stato folgorato da un’idea. Un romanzo, ecco la soluzione: un computer, un pacchetto di sigarette, un accendino a portata di mano. E tanti saluti al mondo e alle sue amarezze. La storia si intitolava Viaggio d’Egitto e raccontava dell’allucinante avventura di due sposini che, giunti al Cairo per la luna di miele, si trovavano catapultati come per magia nell’epoca dei faraoni. Camillo dava un’ottima prova di se’: linguaggio colorito, prosa sostenuta e travolgente fantasia descrittiva.
Due anni, gli era costato. Ventiquattro difficili mesi sostenuti da una sola, ciclopica voglia di rivincita sulle delusioni della vita. Ma neppure questo sforzo era valso a qualcosa: dagli editori aveva dovuto sorbirsi un coro di no che non lasciava speranze. Ora passava le sue giornate in giro per Milano, come un pensionato sfaccendato. Si era ridotto a una larva, privo di passioni e di stimoli vitali, anche se per la verita’ un rovello gli era rimasto. Risaliva alla notte in cui aveva sognato di passare davanti a una libreria e di trovarvi il suo libro pubblicato con un altro nome. Proprio il suo libro, mica un altro romanzo con il titolo uguale: la sua stessa storia, copiata paro paro, con nomi, frasi e capitoli perfettamente sovrapponibili. L’immagine era sempre quella, eclatante e allucinata: in una libreria dai muri bianchi, in fondo a uno scaffale bianco, su una pila di libri bianchi, troneggiava un libro nero. Sopra, la scritta. Bianca. Viaggio d’Egitto. Cosi’, quasi per scaramanzia, da qualche mese a quella parte le librerie preferiva non guardarle neanche piu’. Ci passava accanto come un cane bastonato, girandosi dall’altra parte per essere sicuro di non vedere proprio nulla. Tanto non aveva niente da perdere: i libri degli altri non lo interessavano, che il diavolo se li portasse con i loro miliardi, e quanto al rischio del plagio… beh, se doveva capitare era meglio che lui non ne fosse informato.
Davanti alla vetrina
Via dei Mercanti. Tra Cordusio e Duomo. Sulla sinistra, un po’ prima della banca, c’era una grande libreria. L’insegna riportava il nome del proprietario, Valenti, che era anche uno dei maggiori editori “trend”. Ovviamente pure Camillo aveva provato a entrare nelle sue grazie: gli aveva scritto piu’ volte, gli aveva spedito i copioni teatrali, e a una conferenza stampa aveva persino spintonato per conoscerlo di persona. Ma poi a manoscritto inviato non ne aveva piu’ saputo niente, ed era stato un pessimo colpo perche’ buona parte dei progetti legati a Viaggio d’Egitto poggiava proprio su un suo si’.
Quel mattino, giunto al culmine della sua ennesima passeggiata, Camillo alzo’ gli occhi e li poso’ su quell’insegna. Valenti. Bella, sfolgorante nel suo corsivo inondato di luce. Sotto, ancora confusi dai riflessi, i libri. Allineati, incolonnati, puliti. Facevano voglia soltanto a vederli. E il terrore del plagio? Si’, quello era rimasto, ma occorreva farsi coraggio se si voleva cambiare qualcosa. Per cui decise di piantarla con vittimismi e piagnistei, e si avvicino’ al negozio. Poggiate le mani sulla vetrina non provo’ alcuna emozione particolare. Anzi, in un certo senso gli veniva da ridere. Libreria bianca, libri bianchi… che idiozia! Non era forse normale, persino elegante, il locale che gli stava di fronte? Non erano forse accattivanti, se pure frustranti, i libri sugli scaffali? E non c’era che l’imbarazzo della scelta: l’ultimo di Crichton, il cofanetto su Ramses, Potere esecutivo di Clancy, Desperation di King… e poi… ah si’, gli italiani: Bevilacqua, Baricco, la Tamaro, la Maraini, Sala…
Sala?
Si fermo’ un attimo, colpito da quel nome. Angelo Sala. Sparato a grandi caratteri su un cartellone intitolato “L’esordiente dell’anno”. Bene, bravo. Ecco dunque a chi erano andate le preferenze di Valenti. A questo sconosciuto sbarbatino di provincia, assurto agli onori della cronaca per chissa’ quale inutile sbrodolata. E come si intitolava il suo capolavoro?
… Viag…?
Viaggio d’Egitto.
Una brusca conferma
Viaggio d’Egitto.
La prima tentazione fu quella, banale, di serrare le palpebre e riaprirle di colpo, come davanti a una traveggola che si ha fretta di scacciare. Camillo chiuse gli occhi e li spalanco’ dopo un istante, mosso piu’ dalla speranza di scoprirsi in un sogno, nel suo solito sogno, che non dal desiderio di un’ulteriore verifica. Ma la realta’ gli aveva gia’ riservato una brusca conferma, lasciandolo solo con un maledetto titolo che non poteva proprio sembrare piu’ vero.
Viaggio d’Egitto.
Il pallore si impadroni’ del suo volto. Pietrificato, il nostro amico indugio’ per interminabili secondi, prigioniero di un vertiginoso disorientamento. L’impotenza lo dominava, costringendolo a vagare nel vuot gli odori, il calore, i suoni della citta’ erano scomparsi. Qua e la’ spuntava la testa di un commesso, il cappotto di un cliente, o un riflesso sul vetr ma erano solo ombre vacue in uno scenario che non ammetteva intrusi.
Viag…
Basta! La dignita’ s’inerpico’ prepotente su quella trance. Fu un attim Camillo stacco’ le mani dal vetro, e i fantasmi dell’ansia abbandonarono la visuale, lasciando una lieve patina chiara a sfuocare il salone della libreria. Le sensazioni turbinavan terrore, rabbia, angoscia, costernazione si alternavano impietose, e solo una forte volonta’ fu capace di allentarne la presa. Piu’ calmo, tento’ di concentrarsi sulle mosse successive. Non c’era dubbi come prima cosa avrebbe raggranellato le forze e sarebbe entrato nel negozio per aprire una copia del romanzo. Non avrebbe fatto altro che scoprire quanto gia’ sapeva, ma doveva comunque verificare sino in fondo. Cosi’, stravolto, muscoli tremanti, cuore assordante, si avvio’.
Una tigre ferita
Quella non era la libreria Valenti. Per lo meno non lo era piu’. Adesso, illuminata dal sole, appariva l’esatta riproduzione di quella dell’incubo. I muri bianchi, i libri accatastati su enormi cubi bianchi, il banco della cassa bianco, la divisa degli addetti bianca. Bianchi anche i libri. Tranne naturalmente il suo. Cioe’, quello di Angelo Sala.
Nel negozio aleggiava una pesante quiete. I pochi avventori ciondolavano annoiati da uno scaffale all’altro. Camillo distribui’ un trasognato sguardo a clienti e commessi, facendosi strada con sempre maggior risolutezza. Giunto infine dinanzi al corpo del reato, vi calo’ una mano affondandovi gli occhi con avidita’. Primo risvolto di copertina. Sulla sinistra era sintetizzata la trama.
Due sposini trascorrono la luna di miele al Cairo…
Per fortuna alle sue spalle c’era la poltroncina riservata ai clienti. Altrimenti si sarebbe accasciato al suolo come un viandante colpito da un cecchino. Il dolore e lo scoramento gli avevano tolto qualsiasi anelito. Tutte le sue residue percezioni erano adesso concentrate sul cuore, ormai vicino al muro del suono, e su quelle righe allucinanti e surreali.
Pagina 3. Era bella. Ma lui non l’aveva mai vista cosi’ bella. In genere curava poco il suo aspett una maglietta e un paio di jeans d’estate, una felpa di lana e pantaloni scuri d’inverno. Una sola gonna per le occasioni, indossata comunque con poca disinvoltura..
Camillo trattenne a stento un urlo da tigre ferita. Era peggio che nei deliri: quella era la sua fatica, quelle erano le sue frasi, quella era la sua forza narrativa. Firmata da un altro.
Pagina 57. “So… sorri?”… Enzo non parlava bene l’inglese, e l’ansia gli rendeva l’accento piu’ ridicolo di quello di un arabo che si esprime in bolognese…
Vergogna. Camillo provo’ vergogna per Sala. Un volgare manichino nelle mani di un editore assetato di guadagni facili. Perche’ la mente di tutto non poteva che essere Valenti, logico. Lui aveva avuto il manoscritto. Lui vi aveva fiutato il best-seller. Lui aveva ordinato a quello scrivano di ricopiarselo da cima a fondo. Inutile quindi continuare nella verifica. Vuoi per caso, vuoi per preveggenza, quegli ultimi tre mesi di incubo avevano colto nel segno. Avevano anticipato, prevenuto, addirittura descritto la tragedia. Adesso, a fatto compiuto, non restava che incassare il colpo. E meditare la vendetta.
Vendetta
Nella quiete di via Bigli, Camillo si palleggiava il volume da una mano all’altra mentre i pensieri turbinavano impazziti. Non aveva mai rubato nulla in vita sua, ma in quell’occasione aveva dovuto adattarsi ai compromessi: un portafoglio fatto di ragnatele e una feroce vampata d’orgoglio gli avevano impedito di andare alla cassa e comportarsi come un comune acquirente. La prima idea fu di precipitarsi in tribunale per sporgere querela contro l’editore e il plagiatore. Richiesta minima dieci miliardi, aumentabili a seconda dei profitti. D’altra parte Viaggio d’Egitto costava trentamila lire, mica bruscolini. Non ci mettevano tanto a fare i soldi, quei due volponi da avanspettacolo. Questo, in teoria. In pratica, non aveva di che pagarsi un avvocato. E senza avvocati non ci si puo’ difendere. Che fare, quindi? Sbugiardare i due mariuoli attraverso qualche televisione regionale? Peggio che mai, ne avrebbero ricavato solo tanta pubblicita’. E allora? La serie di domande sarebbe stata lunga e priva di risposte se l’occhio non gli fosse caduto su un dettaglio in apparenza insignificante. Sul segnalibro in cartoncino che sporgeva dalle pagine centrali era stampata una data.
Martedi’ 25 novembre 1997. Il giorno dopo. Per quel pomeriggio, colpo di scena, era fissata la presentazione dell’autore al pubblico. Nientemeno. Alle ore 18.30, era scritto, Angelo Sala incontrera’ i lettori nell’atrio della libreria di via dei Mercanti. Interverra’ Renato Valenti. Roba da non credere. Da li’ a poco piu’ di ventiquattr’ore, dunque, il famigerato Sala e quello sbruffone dell’editore gli sarebbero venuti a portata di mano, piu’ a tiro di un piattello, pronti a cadere massacrati sotto i colpi della sua forza bruta. La scena gli si dipinse dinanzi con glaciale sadismo. Lui avrebbe colpito solo al momento topico della stretta di mano davanti ai flash. Non prima. Voleva che gli altri, ossia i lettori, vedessero chiaramente di che cosa sarebbe stato capace il vero autore del loro libro preferito. Questione di un attim un calcio di qua, un pugno di la’, e al resto avrebbero pensato quei cento e passa chili di cui non era mai riuscito a sbarazzarsi, e che nella fattispecie avrebbero accresciuto all’infinito la sua potenza distruttiva. Poi sarebbe stato costretto a fuggire, d’accordo, ma dopo una simile esibizione di violenza chi lo avrebbe inseguito piu’? Bel programmino, davvero. C’era di che rincasare felici.
Cronaca
Da “Il milanese”, quotidiano del mattino, 26 novembre 1997.
Ucciso anche l’editore Valenti
Tragedia a Milano in libreria
Morto lo scrittore Camillo Damiani
Trentatre’ anni, aveva esordito il mese scorso con Viaggio d’Egitto, gia’ da sei settimane in testa alle vendite. Ieri pomeriggio era entrato nel negozio di via Mercanti per incontrare il pubblico e la stampa, ma fatti pochi passi si e’ scagliato contro l’editore e l’ha ucciso a calci. e’ stato poi abbattuto da un poliziotto richiamato dalle grida. Forse un’acuta depressione all’origine del folle gesto.
Il testo teatrale: un libro che prende corpo e vita, al di la’ della sua anima sottile, fatta di parole. Un’opera speciale, capace anche di vincere un Nobel per la letteratura
Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativ
viva Lenin!
Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile,
ma scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino
con un secchio di calce e quello,
con un lungo pennello, imbianco’ la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce,
aveva seguito soltanto i caratteri
ecco che c’e’ scritto nella cella, in bianc
viva Lenin!
Soltanto un secondo imbianchino copri’ il tutto con piu’ largo pennello
si’ che per lunghe ore non si vide piu’ nulla.
Ma al mattino, quando la calce fu asciutta,
ricomparve la scritta viva Lenin!
Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
E quello raschio’ una lettera dopo l’altra, per un’ora buona.
E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!
E ora levate il muro! disse il soldato.
da: Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg, Trad. it. di Franco Fortini, Einaudi 1976
Per viaggiare davvero non e’ necessario andare lontano. Si possono usare le parole come gli uccelli le ali. Sono sufficienti un pubblico e alcuni attori. e’ in uno spazio vuoto di emozioni che si comincia un viaggio, in silenzio. Da qui gli attori possono intraprendere il lavoro, anzi, il percorso, liberando tutte le energie e appropriandosi pian piano delle parole, del testo teatrale. Ciascuno di loro recita una storia gia’ vissuta, gia’ scritta. Di questa trama l’attore si fa uno strumento, ma anche vive la sua vita di ogni giorno.
E le parole si animano, dal vuoto nasce la magia del viaggio; dalle singole pagine nasce l’emozione della storia, dalle voci isolate nascono suoni, rumori, musiche e armonia. Nel teatro la parola scritta prende vita, ma una vita speciale: ha un luogo onirico, mentale, dove si liberano le emozioni e i pensieri. Si scorgono nuovi scenari, le strade si allungano, i tempi si dilatano e le stagioni scorrono veloci, come tutte le eta’ della vita. E ogni volta che si ripete la magia, scopriamo con stupore e ironia – come il soldato di Brecht – che i muri esistono solo dentro di noi.
Per essere liberi, la chiave e’ a portata di mano. Una chiave soltanto, che apre tutte le porte.
Molti anni fa un mio omonimo, meritatamente piu’ famoso, si rivolgeva con malcelata civetteria ai suoi venticinque lettori. Sono felice di poterne vantare qualcuno di piu’, e pure discretamente affezionato. Sono trenta, infatti, gli studenti del Master in comunicazione d’impresa di Bari, e tutti loro, senza dubbio, questo numero di Comunico lo leggeranno. Perche’ in buona parte lo hanno fatto loro. Tempo fa, mentre li guidavo in un divertente “laboratorio di scrittura”, ho parlato loro di “Liber”, e mi hanno dimostrato grande interesse e disponibilita’ a scrivere. A me e’ sembrata un’ottima idea, per vari motivi.
Primo perche’ si legavano naturalmente il mio lavoro (scrivere) e la mia passione (leggere), dimostrando il legame qualitativo fra le due attivita’.
Second perche’ e’ bello che in un numero intitolato “Liber”, centrato sulla lettura, ci sia la testimonianza di chi alla lettura e’ piu’ vicin gli studenti (quasi tutti laureati, per altro, in materie umanistiche); ci sia l’esperienza di chi con la lettura ha un rapporto vivo, intenso, quotidiano, non annacquato da frequentazioni troppo blande, non annebbiato da ritmi di vita inutilmente frenetici, non limitato a quei pochi e aridi titoli dettati dalle esigenze di aggiornamento professionale.
Terz perche’ mi e’ parso di poter smentire il luogo comune che vuole che i giovani non leggano. Leggono, i giovani, eccome. E mentre leggono imparano, pensano, si aprono, inventano, vivono. E a volte scrivono.
Nelle pagine seguenti troverete cio’ che hanno scritto. Storie personali e storie universali. Ci sono le immagini ricorrenti di certi viaggi, collettivi o solitari; di certi tortuosi percorsi seguiti dai messaggi per raggiungere i lettori; di navi e naviganti, di marinai e di pescatori (dove entra, a proposito di reti, anche unÕacuta riflessione su internet). Ci sono i conflitti, riconoscibili nella lettura, tra liberta’ e schiavitu’; le dichiarazioni d’amore e di guerra; i giochi con le parole, non solo per gioco; c’e’ l’ironia, la spregiudicatezza che il rapporto viscerale con i libri puo’ portare; ci sono i dubbi (benefici, sempre) che danno un poÕ di disincanto in un tema forse troppo facile alle passioni; e c’e’ anche un rispettoso silenzio di fronte all’espressivita’ del libro. Contando sulla mia amicizia con il direttore, prendo a prestito il suo stile – cosi’ innamorato dei giovani, che lui chiama “la classe dirigente del duemila” – e vi invito a gustare le prossime pagine, da 16 a 36.
Mai come ora mi e’ sembrato pertinente l’auguri buona lettura.
I Promessi Sposi, che splendido libro!
A sentire questa frase, qualcuno avra’ gia’ telefonato al reparto di neurologia. Qualche tempo fa lo avrei aiutato a comporre il numero. Ora non piu’. Amo leggere, leggo di tutto, ne sento fisicamente la necessita’ e la lettura e’ lo stretching del mio cervello. Cio’ nonostante, rifuggivo da alcuni libri come dalla peste. Certi “classici”, solo la parola mi faceva inorridire.
Il fatto, poi, che la loro lettura fosse obbligatoria a scuola li rendeva ancora piu’ insopportabili. Primo classificat “I Promessi Sposi”; sul podio, anche la “Divina Commedia” e “I Malavoglia”, e dietro schiere di inseguitori, dal team Veristi Italiani ai Romantici Tedeschi, per non parlare della squadra russa, capace di scrivere libri persino sugli idioti.
Ore e ore trascorse in classe a sonnecchiare mentre un compagno, sventurato lettore, con voce altrettanto sonnolenta leggeva “Quel ramo del lago di Como…(ronf )”. Logica conclusione: leggere, che rottura di palle. Ma… avete mai ascoltato un grande attore – dico Richard Burton, o Albertazzi, o Gassman, quei livelli li’ – che interpreta un testo di quelli? Il vostro primo pensiero sarebbe (il mio lo e’ stato!): “Ma che bel testo, io lo conosco, l’ho gia’ sentito ma non riesco a ricordarne il titolo!”. Potere del make-up? Chirurgia plastica? Silicone? Ma no, semplicemente chi leggeva ha dato una voce a quelle pagine cosi’ pesanti, le ha spolverate e ha permesso loro di respirare.
Che il lettore fosse un mago? Non e’ questo che importa, cio’ che conta e’ che il libro-mattone e’ diventato leggero leggero, una piuma che scende dondolando nell’aria e voi volete afferrarla con la mano e farla diventare vostra. E ogni volta che rileggete, sentite la voce di quel lettore magico, fantastico, e pian piano cominciate a scoprire fra le righe qualcosa che non immaginavate. In fondo, la voce narrante vi ha solo consegnato la chiave per entrare nel vivo della storia, il resto della visita lo fate da soli, ma con occhi diversi. Buon viaggio.
Una stessa radice, “liber”, nella lingua latina, per “libero”, “libro” e “figli”.
E allora, la liberta’ di mettere insieme queste parole, e lasciarle giocare.
Libro, figlio libero di padre schiavo, perche’ schiavo e’ quell’ignavo che sognavo da bambina mi portasse fino in Cina senza farmi poi sapere dove andasse veramente Marco Polo e la sua gente.
Schiavo schivo, irriverente, si direbbe quasi pazzo se non fosse che egli porta sul cappello un gran sonaglio con il quale scuote i sogni, li resuscita… coscienza che poi perde la pazienza quando lo schiavo burlone la costringe all’impotenza, che tormento, che fragore, che can can che ha provocato quello stolto col berretto… Ora dentro ho un gran rumore, rugge il mare nel mio petto.
Quelle pagine fatate sembra marchino con sangue, quelle care personcine che poi leggono, rileggono, succhiano a grandi sorsi la follia del mondo, comunicano, amano, sognano, fuggono, sbattono e godono e gemono e tutto senza un copione, senza che lo schiavo abbia dato direttive.
Sono soli, fiere libere affamate, con il corpo fustigo e ramingo ma con l’animo impazzito dalla follia dello schiavo pazzo che ha insinuato in loro una stilla del suo sangue, una goccia della sua anima che ha dato vita a un’alchimia che rendera’ quell’uomo idiota, forse, pazzo, o forse ricco, o forse UOMO. Schiavo, scrivi, urla la tua anima! Perche’ l’uomo libero possa uscire dalla tua carcassa.
Un casino. Quando prendo un libro dalla mia biblioteca domestica e’ sempre un casino. Perche’? Semplice. Faccio una cosa e ne penso mille, e cosi’ per terra altri dieci libri. Li vedo cadere, immobile, quasi mi faccio colpire. Forse e’ una forma di autopunizione. Lo sguardo e’ assente, ma nasconde tanta rabbia per l’incarnita maldestraggine. L’ultima volta, pero’, e’ stato diverso. Lo sguardo assente ha captato un libro nascosto ai miei occhi e al mio cuore da molto tempo. Lo raccolgo e sorrido mentre ne leggo un titol “L’amico ritrovato”. La sua dimensione (meno di cento pagine), e il ricordo di chi me l’aveva regalato, mi invitano a stringerlo tra le dita dolcemente. Ma sono i due fanciulli disegnati sulla copertina che mi chiedono di riaprirlo, rileggerlo, riviverlo. Li assecondo. Comincio, e man mano che vado avanti mi rendo sempre piu’ conto che l’amico ritrovato e’ lui: il libro. Da allora non mi sono piu’ fermato. Divoro libri togliendo tempo allo studio, agli amici, al calcetto.
Navigare
Navigare! navigare! navigare! e’ questo cio’ che faccio leggendo. Navigo su mari mai calmi, su barche mai sicure, per mete mai certe. Il vecchio pescatore ha il mare come unico vero amico. Cosi’ e’ per me. Un libro puo’ essere un amico perche’ e’ difficile trovarne uno di carne e ossa, perche’ trovi in lui cio’ che vuoi trovare, perche’ ti tranquillizza, perche’ ti scuote, perche’… Tante cose. Poi, quando l’amico e’ ritrovato e’ ancora piu’ bello! Ti riporta indietro nel tempo come il pescatore che, con la pipa tra le labbra e lo sguardo all’orizzonte, ricorda porti lontani, storie d’amore di una notte, grandi sbornie per disintossicare l’anima.
Come Virgilio
Quando ho ritrovato la bellezza della lettura mi e’ capitato tutto cio’. Mi facevo trasportare dalle avventure di Ken Follett, dall’Africa di Kuki Gallmann, dall’anima profonda di Isabel Allende e da tanti altri. Hanno attraversato i miei occhi, colpito le mie mani, sentito le mie emozioni. No! Non voglio piu’ perdere quest’amico ritrovato. e’ troppo prezioso. L’alibi del lavoro, dello studio, degli impegni vari non regge. Un attimo si puo’, si deve trovare per appoggiare gli occhi su una frase che ti squarci il velo verso un mondo nuovo, il mondo che vorresti: “L’isola che non c’e'” direbbe Edoardo Bennato.
E in questa perenne ricerca il libro mi tiene per mano, come Virgilio con Dante. Io gli sorrido, mi fido di lui, mi lascio trasportare. Com’e’ stato importante far cadere quei libri. Dal “caos” e’ nato qualcosa di straordinario. Da quel cumulo informe di libri ho ritrovato un amico, anzi l’Amico. Ritorno con il pensiero a quella copertina con i due fanciulli surreali che mi guardano. Ho una voglia pazza di parlare con loro, di ringraziarli per i loro consigli, ma non posso. Resto ipnotizzato dai loro occhi che mi fissano e quasi mi rimproverano per aver rubato un po’ dei loro sogni.
Nei libri e’ disegnata l’anima del mondo. Nei libri e’ ritratto il volto di ognuno dei suoi lettori. Questa intuizione si e’ impadronita di me alcuni anni fa leggendo un racconto di Kafka intitolato “Un messaggio dell’imperatore”. Un racconto di quaranta righe nel quale lo scrittore ceco ha condensato il significato intrinseco di ogni produzione letteraria e che mi ha regalato una nuova consapevolezza. Ogni libro e’ in fondo un messaggio che l’imperatore (che mi piace identificare con l’intuizione creativa) ha deciso di inviare, dal suo letto di morte, a me suo singolo suddito, bisbigliandolo all’orecchio di un messo.
Il messo e’ un uomo fedele ed energico, solerte ed instancabile, ma si spendera’ invano nel tentativo di aprirsi il cammino attraverso le stanze del palazzo, le scale, i cortili, le mura di cinta, la folla e la citta’ imperiale “colma fino all’orlo di tutta la sua feccia”. Il messo non raggiungera’ mai la porta di casa mia, ma io siedo alla finestra e immagino che il messaggio dell’imperatore giunga a me, quando scende la sera. Questo racconto mi ha avvicinato ai libri come a universi di sembianze che mi provocano e che mi sfidano a riconoscere, tra loro, la mia.
La sfida
La sfida, libro dopo libro, lettura dopo lettura e’ quella di riuscire a sedermi con il mio libro dinanzi alla finestra della mia anima e immaginare il messaggio che il messo dell’imperatore non mi consegnera’ mai. Leggendo metto in discussione non tanto cio’ che penso o sono, bensi’ la percezione che ho di me stesso, perche’ il libro mi restituisce il ritratto della mia interiorita’. La lettura non e’ una semplice ginnastica mentale. e’ soprattutto un esercizio di introspezione e quindi di trascendenza di se’. Ogni volta che apro un libro richiamo a me la sensibilita’ e il coraggio necessari a riconoscere in una trama narrativa i tratti del mio volto e a distinguerli dalle mille altre sfumature che non mi appartengono.
Lettura che si fa scrittura
Ogni libro nasce incompiuto. La liberta’ che deriva dalla lettura risiede proprio in questa sua intrinseca incompiutezza espressiva. Il libro e’ geneticamente incapace di raggiungere coloro che lo leggono, proprio come il messaggio dell’imperatore, perche’ il suo potenziale evocativo viene mortificato dall’inadeguatezza del linguaggio (il messo). Solo una lettura che si fa anche scrittura, che si completa con l’apposizione di segni da parte di chi legge, puo’ aiutare il libro a rendere efficace la sua espressivita’.
I libri che leggo davvero sono quelli sui quali scrivo, sui quali dissemino segni e simboli, colori e sottolineature, annotazioni e cancellazioni. I libri sui quali scrivo sono quelli che davvero mi appartengono. In essi il ritratto della mia anima e’ piu’ distinguibile. Scrivo sui libri affinche’ mi appartengano di piu’. Le sue pagine, imbrattate di me, testimoniano che la sfida e’ stata raccolta, si e’ consumata. I segni che lascio su un libro sono i segni della mia ricerca, che infine divengono il “di-segno” della mia umanita’ cosi’ come essa mi viene suggerita dalle parole che sollevo dalle pagine e che preservo per me stesso.
Libri da non prestare
Il libro e’ un atto comunicativo incompiuto, ed esso stesso e’ consapevole di questa sua limitazione, cui pone riparo mostrandosi accogliente. Un libro mi lascia lo spazio per la mia espressivita’, anzi mi chiede di fargli sentire la mia presenza, di accompagnarlo nella sua missione che resta sempre quella di giungere alla definizione di un volto. Per questo non presto a nessuno un mio libro. Semmai ne acquisto un’altra copia e la regalo, con la consapevolezza di donare assieme a essa lo spazio per una sua personalizzazione creativa.
Libri da violare, libri da rileggere
Il libro rivolge a chi lo legge un invito a violarlo, a violare il candore dei suoi bordi, a dissacrarlo benevolmente affinche’ non diventi un feticcio silenzioso, un oggetto decorativo, un pezzo da collezione. Riaprendo dopo un po’ di tempo un libro segnato mi accorgo subito che esso parla di me, mi racconta com’ero quando l’ho letto, perche’ l’impronta della mia sensibilita’ e’ rimasta li’, cristallizzata in quelle pagine.
Se leggere un libro e’ un’esperienza affascinante, riaprire un libro gia’ letto e’ un’esperienza doppiamente significativa. Non mi limito a rituffarmi nel testo, ma leggo anche il modo in cui l’ho letto la prima volta. Mi pongo accanto a me stesso e mi lascio raccontare com’ero. E soprattutto allora mi rendo conto di quanta energia evocativa ero riuscito a trarre dalla lettura di quel libro. Mi sento appagato dall’essere riuscito a leggere oltre le righe, grazie al fatto di non essermi accontentato di cio’ che in quelle righe era scritto. Scopro di aver colto cio’ che non ero ancora riuscito a cogliere e che mai avrei potuto cogliere. Proprio come quel messaggio dell’imperatore che riesco a conoscere senza che il messo abbia mai bussato alla mia porta.
Se qualcuno fosse venuto a dirmi qualche anno fa “Liberi di leggere, leggere per essere liberi”, probabilmente gli avrei riso in faccia, perche’ non avrei saputo dare un significato a quelle parole. L’universita’, fortunatamente, mi ha messo di fronte non solo a libri specifici, relativi alle singole materie, ma anche a una serie di libri, ai quali poter guardare in maniera piu’ rilassata e con il piacere di farlo.
Da qui ho sviluppato un rapporto molto strano con il libro. Io adoro il libro in quanto oggett mi piace acquistare libri e godere del profumo delle pagine nuove. Ho infinita cura del libr non lo imbratto con i pennarelli, rispetto il suo ordine e il suo candore; non riesco a piegare l’angolo della pagina come segnalibro. A questa alta considerazione del libro come oggetto non sempre e’ corrisposta una costante volonta’ di immergermi tra le sue pagine. Mi spieg ho sempre vissuto momenti di forte unione con il libro, momenti in cui la lettura monopolizzava la mia vita, in cui assorbivo ogni pagina, in cui le idee singolari dell’autore diventavano ancora piu’ singolari nella mia mente, che ne dava una rappresentazione scenica immediata.
Questi momenti di unione si sono alternati e si alternano ad altri di distacco; momenti in cui potrei leggere tante cose senza riuscire a leggere niente. L’estate scorsa ho cominciato tre libri che poi ho abbandonato. Se qualche anno fa mi preoccupavo per questo, ora ho capito che il mio animo e’ libero di leggere quando vuole essere libero, e richiede la lettura quando vuole essere libero proprio perche’ e’ libero di leggere. La lettura non e’ qualcosa che puoi imporre alla tua mente e al tuo animo; il tuo animo la richiede quando ha sete di curiosita’ e ha voglia di affrontare e superare il deserto in cui si trova dissetandosi con una bevanda mai gustata. Non mi sono piu’ interrogata sul mio rapporto altalenante con il libro; o meglio, ho capito che cio’ che definivo “altalenanza” non era altro che liberta’ nell’approccio al libro e alla lettura, e liberta’ grazie al libro e alla lettura.
Se penso al potere della lettura non posso fare a meno di pensare al rapporto “viscerale” che ho con essa. Credo che nella vita difficilmente capiti di poter essere piacevolmente soli con noi stessi, se non nel momento in cui leggiamo un libro, o mentre siamo comodamente seduti sul nostro water. Sono questi i pochi momenti in cui un uomo sente di essere veramente libero, e’ piu’ che mai concentrato, crede che al di fuori di quella rosa stanzetta non ci sia nulla, e che niente e nessuno potra’ mai spezzare quell’incanto.
A chi, nell’intimita’ del proprio bagno, preso dalla noia del momento, non e’ mai capitato di mettersi a leggere le etichette di tutto cio’ che era a portata di man shampoo, detersivi, detergenti intimi, compresa la composizione e le loro modalita’ d’uso? Un consiglio, allora: organizzatevi, anche perche’ le vostre mamme, fedeli clienti di Dash, non vi lasceranno spaziare molto nella lettura; insomma, fate come me, unite i due momenti, non c’e’ niente di piu’ “liberatorio”. Attenzione, pero’: fatelo solo se avete i doppi servizi, altrimenti la vostra famiglia iniziera’ a odiarvi.
Anche se, nonostante tutto, inevitabilmente, dopo circa trenta-quaranta minuti scatta il toc toc di qualcuno che ha bisogno di qualcosa, o semplicemente vuole assicurarsi che tu sia ancora vivo; e quel rumore e’ tremendo, e’ come il risveglio sotto una doccia fredda, e imprechi, e pensi quanto Guccini abbia ragione quando canta nell'”Avvelenata”:
ovvio, il medico dice: sei depresso,
nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento…
Insomma, confesso di essermi fatta una cultura con la complicita’ dei miei problemi di digestione, tanto che ho dedicato la mia laurea alla piu’ mitica delle biblioteche: il bagno.
Una riflessione, pervasa di bonaria ironia, sull’utilizzo alternativo dei libri
“Libri? No, non saprei che farmene! Io non leggo, non ho tempo. Non ha senso per me comprarne. Resterebbero impilati da qualche parte, senza alcuna ragione di appartenermi…”.
Ah, caro NON LETTORE, devi sapere che un libro e’, invece, una grande risorsa e puo’ rivelarsi utile persino a te, nemico della lettura. Ti dico come.
Un libro e’ custode di valori
A chi non e’ mai capitato di nascondere tra le pagine di un libro la paghetta della nonna, o i soldi per l’affitto, o quelli per un regalo speciale? “Dove li ho messi? Ah si’, nel libro di…” e poi subito a ritrovare quel tesoro prezioso, soddisfatti per l’affidabilita’ del nostro nascondiglio misterioso.
Un libro e’ custode di emozioni
Una lettera d’amore o un fiore che vogliamo gelosamente conservare, dove trovano posto? Nelle pagine di un libro, magari di quello che teniamo sempre sul comodino o, al contrario, sullo scaffale piu’ alto, per essere certi che nessuno verra’ a violare i nostri segreti. Il libro diventa cosi’ il nostro complice, il nostro confidente, conserva fedele le nostre emozioni, come il migliore degli amici. E non ci tradisce!
Un libro e’ fonte di equilibrio
Una sedia che traballa, un tavolo che pende da un lato, magari proprio la sera della cena di Natale. Basta trovare un libro della giusta misura e la precarieta’ viene meno, con grande soddisfazione dei commensali, e tanti auguri a tutti.
Ah, caro non lettore, come vedi avere un libro a portata di mano puo’ essere un gran vantaggio. Se poi, mentre lo prendi per metterci dentro i soldi, una lettera o un fiore, ti capita di aprire la prima pagina e iniziare a leggere… beh, credimi, questa e’ tutta un’altra storia.
Libro… Libero… Liberta’. Ripeto tante volte la sequenza nella mia testa a ritmo sempre piu’ blando, sperando che il suono o l’ascolto delle tre parole mi svelino il segreto di un profondo e unico significato. A volte sono superconvinto che la potenza rivelatrice delle parole stia soprattutto nel suono, attraverso cui esse fuoriescono, vibrano, si materializzano; ma adesso… il triplice suono mi “rimbomba” dentro, senza pero’ svelarmi, senza parlarmi. Non sono soddisfatt forse non so ascoltare abbastanza. Ci riprovo con la vista. Tre incisioni dello stesso nero sul bianco, sempre uguale a se stesso. Tre composizioni simili nella fisionomia, sembrano tre fratelli straordinariamente somiglianti, eppure sono tre vite distinte. Non sono la stessa cosa. In fondo, che importa se non sono la stessa cosa? Chi pretenderebbe di tradurre una complessita’ di cose in una stessa cosa? Le diversita’ sono inviolabili, “sono sacre”. Ok, ma questo basta, mi chiedo, a lasciare tutto nella disgregazione? a rinunciare alla liberta’ di pensare insieme le cose, di leggerle insieme, di creare alchimia?
Spazio, liberta’
Ecco finalmente i primi segnali luminosi: pensare, leggere… esigono spazio, liberta’. Accidenti, ma anche il libro chiede di essere letto e… per cosi’ dire, ci dona la liberta’ di interpretarlo. Cosi’ ho liberato il pensiero. In un certo modo ho aperto una porta della liberta’ al libro e viceversa, il libro alla liberta’. Potrei persino trovarne supporto nelle profonde e suggestive combinazioni etimologiche dei saggi greci e latini, ma rimango sempre insoddisfatto. Forse dovrei riferire questa costante insoddisfazione al mio difficile rapporto con la vita o al sentirmi un perfetto figlio del mondo di oggi, cosi’ esasperatamente complesso. Percio’ io, uomo di poca fede, mi chied parlare di leggere, parlare di libro puo’ significare anche parlare di isolamento, schiavitu’, oltre che di liberta’? Possono le parole, le frasi, gli scritti a volte bloccarci “entro le righe”, sopportarci, oltre che liberarci a nuovi orizzonti?
I libri e il mondo
Do via, a ruota libera, ad alcuni significativi ricordi, ho sempre avvertito con una certa tristezza il fatto che una persona possa dedicare l’intera vita a navigare fra carte, libri, scritti di ogni genere: istintivamente sono portato ad immaginare sopraccigli aggrottati, sguardi austeri e isolati dal resto del mondo che non e’ scritto. Ma penso anche a quella liberta’ di entrare in un mondo in continuo racconto, di leggerselo quando e come si vuole, magari di perdersi e di ritrovarsi su esso, di gestirselo, comunque, con l’onnipotente linguaggio della scrittura. Il mondo e’ solo cio’ che di esso si scrive o c’e’ dell’altro? Se mai un giorno si finisse di scrivere libri, finirebbe anche il mondo? Credo che non sapro’ mai rispondere a queste domande.
Anni fa Laura, la mia maestra spirituale, confrontandosi col mio carattere eccessivamente inquieto, mi disse: “Nei libri… e’ li’ dentro che troverai tutte le risposte che cerchi”. Ok, i libri ci rendono liberi di comunicare tante cose, e con tante altre cose dell’esistenza; ma essi raccontano cio’ che esiste, non possono sostituirsi completamente al mondo stesso. Se cosi’ fosse, credo che tutte le cose sarebbero quasi “imprigionate” nell’unica forma del racconto scritto, della stesura del nero sul bianco, sebbene la liberta’ di narrazione e di lettura possa essere senza fine. Che l’esistenza vada continuamente letta e’, a parer mio, un dato di fatto, oltre che un valore. Ma non credo vada letta solo sui libri.
In trincea
Infine il ricordo va a un mio caro amico che mi confesso’, un giorno, la frustrazione che provava costantemente nel voler leggere ed informarsi su “tutto” e nel non riuscire mai. Beh, si sa, la cultura e’ e sara’ sempre piu’ grande di ogni singolo individuo. I libri sono e saranno sempre di piu’ di quelli che avremo alla fine letto. Ma la cosa che quel giorno turbo’ i miei pensieri fu la constatazione che il mio amico, tenace amante dei libri, si stava quasi difendendo dalla frustrazione, dagli “assalti” massicci e senza tregua delle informazioni e di tutto cio’ che e’ scritto. Mi sembrava stesse in trincea. Come avrei dovuto interpretare il suo atteggiament una dichiarazione d’amore o, forse, di guerra al libro?
Caro vecchio amico libro, vascello di fantastiche traversate in terre lontane, insieme abbiamo solcato il tempo e lo spazio, incontrato grandi uomini e sognato nuovi orizzonti. Gran parte del mio essere, oggi lo devo anche a te. Sono passati un po’ di anni da quando, con inevitabile fatica, imparavo a leggere; non ero del tutto consapevole, allora, dell’incredibile strumento che avevo tra le mani. Ma dopo un po’ di tempo ho capito di possedere le chiavi per entrare in un universo di saggezza e di emozioni, in un mondo di carta che si anima di sentieri del cuore e della mente.
Sono fortunata. Leggere e’ un dono che non tutti possiedono; non significa solo stare in compagnia di Anna Karenina e Lord Jim; serve a farci capire chi veramente siamo. Quante volte mi e’ capitato di ritrovare frammenti del mio cuore in quelli di un personaggio. Tu, libro, mi aiuti ad ascoltare, e ancora prima ad ascoltarmi, a vincere la solitudine e a riempire il vuoto che a volte assale le mie giornate; a vivere tante altre vite oltre la mia… Immergermi in te, caro amico libro, e’ perdere i confini del mio essere, viaggiare con la fantasia, ritornare in me dopo aver conquistato remoti tesori.
Leggere e’ infatti liberta’, rompere le catene dei pregiudizi e degli oscurantismi e tuffarsi nelle infinite potenzialita’ del proprio essere uomini. Ben lo sapevano gli uomini del Rinascimento, che alle loro spalle avevano il Medioevo e le catene dei dogmi e delle paure. Dall’interazione con i classici antichi attinsero il desiderio di liberare il loro spirito critico, di far esplodere le proprie energie gridando al mondo cosa vuol dire essere uomini, padroni della propria identita’ e delle proprie scelte. Oggi l’umanita’ ha fatto tanti indiscutibili progressi; ma forse l’enorme “folla solitaria”, che assorbe ed e’ assorbita dai messaggi, ha bisogno di fermarsi un po’ e riflettere. E tu, libro, ci aiuti in questo viaggio dell’anima.
Fin dai primi anni di vita i libri ci hanno accompagnato nel nostro cammino verso la conoscenza. Alcuni li abbiamo odiati, altri sono diventati il nostro punto di riferimento. Tutti, comunque, ci hanno lasciato qualcosa.
Ci sono libri che riescono a catturarci e a trascinarci in un mondo magico di cui ci sentiamo parte. Quelle parole venute fuori da una penna e impresse indelebilmente su un foglio bianco ci aiutano a sognare. Le sentiamo nostre, diventiamo protagonisti della storia: grandi navigatori o amanti tenerissimi, bambini o vecchi saggi.
Tante volte nella mia vita ho provato questa emozione. Ho volato in mille cieli azzurri, su mari sconfinati e monti innevati. Ho visto le verdi praterie australiane e il deserto d’Africa. Ho condiviso il povero pasto con il contadino e ho danzato alla corte di Francia. Nel mio lungo girovagare ho voluto conoscere colui che ha reso possibile questo miracolo, per ringraziarlo di aver scelto proprio me. E l’ho visto li’ seduto alla sua scrivania, solo con la sua penna. Ho sentito tutto l’amore, la felicita’, l’orgoglio che provava vedendo le sue parole danzare sul foglio e magicamente dare vita a una meravigliosa creatura. E la soddisfazione sul suo volto al pensiero che nel mondo almeno una persona sarebbe riuscita a trovare conforto con le sue parole.
Ora voglio raccontarvi una bellissima storia sulla magia del libro. Era il 1982 quando Mohammed Aden Sheick, medico somalo ed ex ministro di quel paese, fu arrestato perche’ contrario al regime. Per sei lunghi anni ha vissuto in cella senza luce, privato del piacere di parlare, leggere e scrivere. Il ricordo delle pagine de “I Promessi Sposi” lo ha tenuto in vita e gli ha donato le ali per volare libero oltre le buie pareti della prigione. Se questo non e’ un miracolo!
… Ancora una volta ho decis
solo, apro la porta ed entro.
E’ buio. Pian piano avanzo.
Un altro mondo
si colora di luoghi e volti che non conoscevo.
Non so dove vado.
Mi fermo a riflettere,
ma qualcosa mi divora.
Continuo a camminare…
Passo dopo passo, pagina dopo pagina
vive una nuova vita.
Caro libro, ti ho vinto
anzi mi arrendo.
La mente naviga e va lontana. E’ spinta dal vento della solitudine, tanto forte da raggiungere immensita’ sconfinate. Vede luoghi oscuri, ignoti, tetri, cosi’ distanti dalla quotidianita’ del reale. Vuole fermarsi, ma il vento e’ troppo forte per riuscire a dominarlo. Intanto la sponda diventa sempre piu’ lontana e io sempre piu’ distaccata dagli altri, sempre piu’ sola. E in questo viaggio non c’e’ mai nessuno sulla stessa rotta, ne’ qualcuno pronto a venire in soccorso.
D’un tratto, un libro, posto li’ solitario, si impossessa delle mie mani, quasi volesse mostrarmi con solidarieta’ e complicita’ che riesce a guardarmi negli occhi e a scorgere, nella silenziosa oscurita’ di me stessa, il mio io soffocato da profondo e deludente scorrere degli eventi. E comincia a parlarmi, di me.
Adesso i miei occhi e la mia mente sono volti solo su di lui. Piu’ calmi e sereni si accendono di un’intensa luce, rassicurante ed energica. Le sue parole sciolgono i miei confusi pensieri, poi mi stringe forte la mano e piano mi sussurra all’orecchio di non pensare alla sponda ormai distante e alla meta che sembra irraggiungibile.
Senza accorgermene sono all’ultima pagina, il vento e’ ormai calmo, alzo gli occhi e davanti un avvistamento di terra compare all’orizzonte.
Anche in un tema cosi’ coinvolgente, una benefica condizione mentale – quella del dubbio – puo’ porre una questione di non immediata soluzione.
Pens e se questa domanda la rivolgessi a mio padre, che di battaglie ne ha fatte tante nella sua vita, come mi risponderebbe? Di sicuro griderebbe si’ con tutto il fiato dei suoi polmoni, lui che da sempre mi spinge a fare del leggere l’imperativo categorico della mia vita: perche’ istruirsi e’ bene, perche’ la storia si deve conoscere, e perche’ all’universita’, lui, non ci e’ potuto andare.
Eppure un dubbio mi viene: lui che e’ stato un operaio, uno di quelli con la tuta blu unta di grasso, le sue battaglie non le avra’ fatte di sicuro a suon di libri, di straripanti paroloni sulle utopie possibili da realizzare, ma piuttosto di nottate all’addiaccio in fabbrica, per ottenere qualche lira in piu’ nel suo salario. E allora: se fosse solo una scusa quella degli uomini di nobile virtu’, di chiedere in prestito ai libri la magia del sogno possibile, di cio’ che credono potersi realizzare attraverso il volo libero della mente sopra le righe?
A volte invidio la beata ignoranza di certi vecchi senza eta’ che hanno fatto della loro vita, e solo di quella, l’unica testimonianza della propria umanita’ e non si sono persi in inutili divagazioni sul come e sul perche’ delle cose.
L’incontrollabile diffusione di Cd-Rom e siti Internet mette in serio pericolo il vecchio libro? I dubbi di un amante della lettura e della “navigazione”
Credo che il senso profondo di “Liber”, di questa full immersion nell’universo di una comunicazione che ancora si nutre di supporti materiali (carta, inchiostro, colla…) risieda nel fatto che l’anima di ogni lettura e’ in fondo una lettura dell’anima. Quello dell’anima e del libro e’ sicuramente un matrimonio perfetto. Ma siamo certi di essere davvero invitati a un matrimonio? O forse siamo il corteo funebre che accompagna il feretro del libro verso la sua inevitabile sepoltura? Qualcuno stara’ pensand ecco un altro iettatore di fine millennio, uno di quelli che intonano il de profundis a ogni minimo segnale negativo. Di cassandre in giro ce ne sono parecchie, certo, ma e’ difficile oggi far finta di non vedere quanto l’incontrollabile diffusione di Cd-Rom e siti Internet stia mettendo in serio pericolo il caro vecchio libro.
Libri o pacchetti di videate?
Siamo forse giunti all’ultima pagina del libro della storia del libro? Per favore, cancellate dalla mente l’idea che state leggendo il grido di dolore di un anziano nostalgico e un po’ rincoglionito insegnante che si abbandona a una lamentosa apologia dei polverosi volumi allineati da decenni sugli scaffali del proprio studio. In realta’ ho ventisette anni, di libri ne ho letti molti, ma sono anche un accanito “navigatore della rete”. E non nego che Internet possa aver i suoi vantaggi: la quantita’ di informazioni, la possibilita’ di disporne in tempo reale. In sostanza nella rete la comunicazione abbatte le barriere spazio-temporali. Dobbiamo dunque rassegnarci al fatto che i libri del terzo millennio diventeranno dei “pacchetti” di videate? Irraggiungibili alla maggior parte dei nostri sensi? In fondo l’unico veramente attivo rimarrebbe la vista. Pensate a quanto dell’immaginario, del mondo di suggestioni suscitato dai libri verrebbe spazzato via dal confezionamento elettronico.
Meglio multimediale o multisensoriale?
Il fruscio delle pagine: non e’ forse il sussurrare del libro? L’orecchia portasegno non esprime forse al nostro tatto il modo in cui il libro si “piega”, anche fisicamente, ai ritmi della nostra lettura? E che dire dell’odore dell’inchiostro e della carta, o della polvere che ci fa starnutire liberandoci il naso meglio del Vicks Sinex? Cosa rimarrebbe allora della definizione di libro qual e’ quella che oggi troviamo sul dizionario? Cosa resterebbe dell’insieme di fogli, stampati o manoscritti, cuciti insieme e racchiusi da una copertina? Vogliamo davvero consolarci pensando cinicamente che l’importante e’ il fine (la lettura) e non il mezzo (il computer piuttosto che il libro)? Beh, io non ci sto. Non riesco a immaginarmi tra qualche anno a leggere a letto la sera un libro di Calvino, accanto alla mia compagna, attraverso un portatile poggiato sulle gambe, esercitando una leggera pressione su un tasto di tanto in tanto. Qualcuno porterebbe volentieri con se’ un libro su un’isola deserta, preferendolo a ben altre cose. Io mi accontenterei di riuscire a portarmelo dietro nel prossimo millennio, per non dover rinunciare a celebrare l’eterno, appagante matrimonio tra la mia anima e la sensitivita’ dell’incontro con i miei libri.
I libri sono la mia vita. Per capire quanto una persona sia assimilata a questi “oggetti” speciali basterebbe chiederlo ai miei nipoti, destinatari di infiniti miei regali in libri. Ho iniziato a regalare loro libri sin da quando erano ancora in fasce. Poi tutti i compleanni, molti Natali, comunioni e tutto il resto. Ne hanno avuti di ogni tipo. Quelli istruttivi, tutti illustrati per fare le ricerche, quelli in rilievo, con i personaggi delle favole che venivano fuori, quelli che contenevano giochi, quelli di storia dellÕarte per bambini, quelli per colorare. E poi, col passare degli anni la letteratura per ragazzi, i romanzi per giovinette, i gialli, i racconti del brivido, le storie del mistero, quelli comici e quelli ironici, e ora anche i classici e le poesie. I miei nipoti sono tanti: sei e di eta’ varie. Ora il piu’ grande ha ventiquattro anni. Lui e’ stato il mio principale bersaglio. Credo di aver riempito la sua vita con tutte quelle pagine stampate, ma anche la sua stanza, le sue mensole e i suoi scaffali. Qualche volta mi hanno dett ÇBasta con i libri, vogliamo frivolezze!È Ho provato ad accontentarli, ma non mi riesce. Non ho ispirazioni.
Pensare per libri
La verita’ e’ che sono tra quelli che “pensano per libri”. I miei sentimenti passano attraverso la lettura. Cosi’ per me regalare qualcosa a una persona che amo vuol dire nutrire il suo spirito con quello che considero l’alimento piu’ appagante. E poi, scegliere un libro per qualcuno e’ davvero pensare intensamente alla sua persona ed entrare nella sua mente, nei suoi pensieri? Infatti nessuna delle scelte di queglÕinfiniti volumi regalati in tutti questi anni e’ stata casuale. Ho trascorso lunghe ore a cercare il libro giusto per ognuno di loro, rintanata nelle librerie.
A Natale, quando ce ne sono tanti da trovare tutti insieme, si tratta addirittura di intere giornate. Eppure e’ proprio quello il mio massimo gesto d’amore: quei pomeriggi passati a sfogliare, a toccare (i libri sono belli anche da toccare!), a sbirciare, a immaginare il possibile gradimento di questo o di quello, collegandoli a gusti, ad amici, a sport, a luoghi, a personaggi, piu’ o meno amati dai destinatari di tutte quelle pagine. Per scegliere meglio mi ritrovavo (e mi ritrovo ancora) a ripercorrere con i pensieri i loro discorsi, a rivedere l’immagine del loro look, a ricordare cio’ che fin da bambini li attraeva di piu’. Forse saro’ quasi maniaca, ma credo che non esista altro regalo al mondo che richieda unÕanalisi cosi’ approfondita.
Leggerli, sfogliarli, o anche solo vederli
Li avranno letti?, mi chiedo qualche volta. Non importa, mi basta che li abbiano sfogliati ogni tanto o che si siano abituati a vedere mensole piene di volumi accanto ai giocattoli e tutto il resto. Qualcuno, lo so, e’ diventato peggio di me. Per una di loro, che ora studia lettere classiche all’universita’, il piu’ grande sogno e’ avere una casa con tutte le pareti circondate da librerie fitte fitte di volumi. E’ la stessa che sogna di lavorare in una casa editrice, da grande, e credo che ci riuscira’. Malattia contagiosa, quella dei libri, trasmessa da una strana zia. (Una Patri-Zia, come mi fece osservare un giorno il piu’ spiritoso dei miei nipoti: ÇNon ti chiamero’ mai zia, perche’ e’ gia’ incorporato nel tuo nomeÈ).
Siamo tutti, allo stesso tempo esperti ed inesperti, riguardo a come si scrive una lettera d’amore. Io un giorno ne ho scritta una che ha cambiato il corso della mia vita. Non nel senso che uno puo’ immaginarsi da una cosa del genere: un nuovo fidanzato, o marito, ma invece, un lavoro. Scrissi quella lettera con la convinzione di dover sottrarre le parole al loro stato inerziale, alla loro irrevocabile bidimensionalita’, alla loro natura gregaria, ma soprattutto, alla loro banalita’. Anche le parole su cui confidavo di piu’ per esprimere e trasmettere all’altro l’importanza e la felicita’ dei miei sentimenti, mi sembravano subito sciuparsi sul foglio. E invece alcune di loro erano cosi’ necessarie cosi’ vitali cosi’ belle che era veramente un peccato che non avessero un corp che non si potessero toccare.
Il corpo delle parole
Questo desiderio mi ha portato a sollevarle fisicamente, materialmente: ritagliandole e appoggiandole alla parete del foglio con alcuni sostegni di carte colorate. Le parole, quelle veramente importanti, avevano cosi’ un corpo, e una pelle, e il destinatario di quella lettera le avrebbe potute toccare. Volevo anche che quel destinatario riuscisse a immaginare la traiettoria che descrive nella mente – o nell’anima? – una parola prima di andarsi a poggiare sulla punta della lingua, sui polpastrelli della mano o sul ciglio del padiglione dell’orecchio. Avendo gia’ violato in quella lettera la prima condizione, quella della bidimensionalita’, mi fu facile violare la seconda, quella che rende oscuro il processo che sta alle spalle della cognizione, del pensare, dell’esprimere qualcosa. Tracciai sulla lettera come delle rotte e in chiusura ci appoggiai una barchetta. Immaginavo forse di miniaturizzarmi: era quello il guscio giocattolo che simboleggiava metaforicamente il mio corpo; oppure un invito a raggiungermi; oppure il segnalatore di una grande distanza; oppure l’icona che induce a considerare che la vita non ci appartiene, ma siamo noi piuttosto ad appartenerle? Non so dare una risposta. So soltanto che quell’azione di andare a mettere le mani dentro le parole, di andarle a toccare, ha cambiato il corso delle cose.
Come sollevare conchiglie dal mare
Quel gesto di sollevare le parole dal foglio e’ stato, credo uno dei gesti piu’ importanti della mia vita, insieme a quello, di piu’ antica e zelante pratica, di sollevare conchiglie dalla riva del mare. In quel gesto di portare fuori, di staccare dal fondo c’e’ gia’ contenuto l’inizio di una narrazione. Narrare infatti significa dare significato importanza valore, spessore, a cose che prima non ce l’hanno o ce l’hanno in un altro modo. Mi comporto anche con i libri come se quelli fossero delle rive. Le loro parole cosi’ belle a volte mi fanno pensare che siano conchiglie e allora le voglio prendere in mano. Soffermarmi piu’ tempo e con piu’ cura su alcune di loro e portarle all’orecchio per sentire l’eco che hanno dentro di me. La loro voce mischiata alla mia. Mi immagino di attribuire loro genealogie, parentele, prossimita’. La parola momento allora, in questo teatro improvvisato dall’immaginazione, e’ una piuma arancione che cade piano nella verticalita’ delle righe, spezzandole; e la parola territori mi sembra di comprenderla meglio attraverso il destino di un francobollo strappato da una lettera anni prima e inspiegabilmente conservato, riposto.
Entrare nei libri
Entro nei libri e mi sembra di varcare una soglia, di entrare nella casa di qualcuno o nello spazio ancora insondabile di un evento. La copertina allora mi sembra il passaggio segreto che si apri’ ad Aladino nel mezzo del deserto. Una botola si spalanca davanti a te: un ingresso misterioso. E poi se il libro e’ bello se e’ scritto bene, ti sembra che cammini dentro di te, che lasci le sue orme; come se le parole fossero i piedi dei pensieri. Ci sono libri cosi’ memorabili che vorresti sottolineare tutte le loro parole, anche le congiunzioni e le virgole, perche’ ognuna di quelle particelle ti sembra necessaria. Dovuta. Ti sembra poi, qualche volta, che nei libri e’ descritto qualcosa di te; di piu’, che parli di te, ti spieghi. Trovando le parole che ti affannavi a cercare senza risultato da altra parte e in altro modo. E allora senti di voler condividere quel libro con qualcuno a cui sei particolarmente legato o a cui tieni, o a cui ti piacerebbe appartenere di piu’. Ti sembra, da quella riva, che il libro ti consente di vedere un nuovo orizzonte, il profilo di una terra, di vite d’altri, che non pensavi, che non credevi, o che semplicemente ti rammaricava comprendere. Il libro ti mostra altre cose, nuove, diverse, a volte intrattabili. Condividi e spartisci col libro il tuo tempo di vita come lui sta spartendo il suo con te. E’ un tempo che se lo sai utilizzare ti sollecita a crescere, a prendere posizione, a formulare un giudizio.
Nuotarci dentro
E ci sono momenti in cui cosi’ forte e’ il coinvolgimento nella lettura che vorresti abolire le distanze, confondendoti fra le righe, e li’ smarrirti. Come ti trovassi a nuotare in quel gran mare di parole e, bracciata dopo bracciata, avanzi, ti fai largo, ti lasci portare dalla corrente profonda che ha mosso quello spazio di esperienza e l’ha cristallizzata nella forma comunicativa del libro. E mentre stai nuotando vedi un altro viaggiatore/lettore che, come te, sta avanzando. Lui e’ sopra una barca, dorme, riposa, forse legge, e tu vai subito a fraternizzare con lui. Perche’ due che amano lo stesso libro sono due emotivita’ fraterne. E poi invece ti tocca scoprire, con sorpresa piu’ grande, che in quella barca sta assorto l’autore, che osservi intento a scrivere il libro che tu stai leggendo.
Attraverso il tempo
Nella lettura i piani del tempo slittano, si cancellano, si scontrano. Tu presti il tuo tempo al libro che in quel prestito vive di nuovo. E il libro a sua volta ti presta le sue visioni, le sue immaginazioni, i suoi umori, le sue direzioni, i suoi destini. Tu per un po’, nel tempo della lettura, sei altri. Puoi vederti vestito con altri vestiti e puoi affacciarti da una finestra da cui si vede un paesaggio assai diverso, nel tempo e nello spazio, da quello che spingi avanti la mattina appena ti svegli. Questo miracolo, questa relazione, si manifesta grazie al potere delle parole: quello di muovere delle cose dentro di te. Sollevare gli strati delle sedimentazioni dell’uso abusato e consertirti di andare a riprenderti l’originale splendore della parola. Come se quella fosse il sonaglio di un tamburello. O l’elica di una girandola che muovendosi ti muove a un principio di volo. Manca poco a quel punto, al libro, per diventare aquilone; e cosi’ lo fa. Ma nel nuovo gioco della relazione vivente che hai stabilito col libro puoi essere tu l’aquilone e il libro il tuo perno terrestre. Azzerare allora le distanze con il libro e’ un desiderio legittimo. Come anche non accettare la condizione di scambio ineguale in cui si manifesta la relazione lettore-libro. Se il libro ti parla e ti dice e ti seduce, anche tu puoi dirgli, puoi parlargli, puoi provare a sedurlo. Trovare la forma in cui si manifesta questo scambio e’ l’arena, e’ l’agone. E’ la sfida che ognuno ha davanti. A ciascun lettore siano consiglieri la sensibilita’, la formazione, l’educazione, la forza interiore, la curiosita’; e, se permettete, il desiderio di bellezza che ognuno puo’ e vuole spendere al cospetto del mondo.
Seguire il consiglio di Hegel (leggere i quotidiani) o affidarsi alla nostra “bibbia personale”? Sul confronto tra lettura e informazione, una proposta
Ricordo un recente elzeviro di Ceronetti sulla perniciosita’ del giornalismo quotidian il diluvio di notizie propinate ai lettori sortirebbero, a sua detta, l’effetto contrario di far perdere lettori. La vita di questi, smisurata e inafferrabile, non sarebbe riducibile nei modi stereotipati delle pubblicazioni quotidiane, imputabili di gravi accuse: omologazione delle principali testate, ricorso contino a luoghi comuni, effetto “ansiogeno” sull’utenza, paragonabile a quello di media piu’ diffusi, come la televisione. Di qui il “grido di dolore” per il divario, secondo lui insanabile, tra lettori e stampa, che ci riporta, per contrapposto, all’atto di fede del filosofo idealista Hegel: definiva la lettura delle gazzette come preghiera del mattino dell’uomo moderno.
Chi seguire dei due contendenti, e con quali motivazioni, senza comunque dimenticare l’intento provocatorio di Ceronetti? La discussione non e’ sterile e obliquamente sofistica; puo’ portarci a spaziare in senso piu’ lato sulla lettura, riconducendoci al tema di “LIBER”. é dunque il giornalismo quotidiano rispettoso dell’anima dei lettori, riconoscendone la vera natura e le istanze piu’ profonde? E ove cosi’ non sia, esistono in alternativa forme “buone” di lettura, e con quali requisiti?
Letteratura e informazione
Tale discorso ci condurrebbe a una contesa aperta tra letteratura e informazione quotidiana, scrittori “puri” e giornalisti. Mentre scrivo, sul treno per Verona, in una uggiosa giornata di gennaio, oltre il finestrino il mio sguardo va alla fangosa campagna padana, invasa da centinaia di trattori del Cobas lattiero, controllati a vista da decine di poliziotti armati. Penso all’eco sui media di questi giorni, all’insistenza sugli aspetti sensazionalistici, senza la capacita’ (o volonta’) di entrare a fondo nel merito, in attesa che ulteriori eventi folgoranti ne soffochino evidenza ed attualita’. Penso, allora, “perche’ non un libro?”. Fissando i termini della questione in modo ampio e circostanziato, dimenticando l’urgenza compulsiva del momento, abbracciando l’argomento in modo piu’ accademico, senza “urgenze commerciali”, come solo un libro consente, forse l’intera vicenda verrebbe chiarita nel modo corretto e sereno all’opinione pubblica del Paese.
Resterebbe aperto, comunque il problema di quanti risulterebbero, in effetti, i lettori. Non intendo, infatti, demonizzare a ogni costo l’attivita’ dei quotidiani; se pur pilotata (e condizionata), sempre di lettura si tratta, e, come tale, degna di rispetto e considerazione, nel contesto italiano di lettori sempre rari. A tutti note, e molteplici, le cause di tanta scarsita’: in primis il dilagare della televisione, mostro tentacolare di una cultura sensibile in prevalenza all’immagine e agli “sproloqui” pubblicitari; la fruizione subliminale, passiva e acritica di certi messaggi, inibisce processi di interiorizzazione, approfondimento e crescita culturale. Non e’ cosi’ per il libro, che si pone alla nostra attenzione in tutt’altro modo, senza coercizioni di sorta; siamo noi a decidere quando e come fruirne. Lo acquistiamo senza limiti temporali, lo apriamo e chiudiamo quando ci pare. Lo divoriamo di un fiato solo o lo facciamo durare a lungo senza paura che venga superato… in giornata. Possiamo leggere i brani, interrompere e poi riprendere, evidenziarne le parti salienti per tornarci su in qualsiasi momento. Lo conserveremo per sempre nella nostra biblioteca, come un amico fidato. Nel tempo lo riprenderemo in mano, riportandolo alla memoria, fascinoso come la prima volta; come succede nelle vere amicizie, il rapporto con il nostro testo ricomincera’ da dove ci si era lasciati.
Seguendo Alberoni
Quanto dico non sembri retorico! Alla lettura di un libro possono applicarsi considerazioni analoghe a un pensiero di Alberoni sull’amicizia: “libera e leggera” (diversamente da altri rapporti relazionali) non pretende, non impone, non obbliga. Col leggere prenderemo nel tempo coscienza dei nostri cambiamenti; tutti, infatti ricordiamo la sensazione provocataci dalle righe di certi libri, in eta’ diverse. Riprendendole anni dopo potremo confrontarci con il nostro passato, acquisendo livelli superiori di autocoscienza.
I “fondamentali”
Personalmente applico da sempre i principi che vado esponendo; nella mia biblioteca c’e’ uno spazio riservato ai “fondamentali”: sono i testi su cui ho basato la mia complessione intellettuale, culturale e morale. Tale sorta di “bibbia personale” (guarda caso dal greco ta’ bilia – i libri) racchiude le scoperte del mio percorso. Di volta in volta ho scoperto il mio io piu’ profondo grazie a frasi illuminanti di Bertrand Russell come di Voltaire, di Thomas Mann come di Andre’ Malraux, di Erasmo da Rotterdam come di Erich Fromm. Sono i miei amici segreti, maestri e tutori, che danno forza e conforto alle mie convinzioni nel cammino faticoso del vivere.
Eh si, perche’ la lettura senza condizionamenti ci restituisce la piu’ ampia liberta’ nel pensare e nel sentire. Immersi da soli in un contatto quasi erotico con nostro libro, arriviamo a penetrarlo senza interventi di estranei. La verita’ che scaturisce da tale “rapporto occasionale” e’ unica, inimitabile; sembra rivolta solo a noi in un’amorosa sorta di interiorizzazione che illumina la coscienza. E mi sembra giusto parlarne in questi termini per analogia con la “illuminazione per fede”. Non credente, e laico per vocazione, leggendo mi sono sentito sovente vicino all’esperienza di Agostino, illuminato per fede; piu’ volte mi sono sorpreso a pensare: “finora non conoscevo questa verita’… in futuro non potro’ ignorarla”. E ancora mi e’ capitato di paragonare il benessere tratto dalla lettura a quello derivante dalle pratiche yoga: non propriamente in termini di “assenza di pensiero”, ma di distacco da ansie e urgenze della vita quotidiana. A un certo punto della lettura di un buon libro e’ facile provare una sorta di benefica e rasserenante atarassia; se ne uscira’ rafforzati nella coscienza del proprio io. Vero questo, non stupiamoci dell’assunto tematico di questo numero di “Comunico”: il termine “LIBER” puo’ attagliarsi perfettamente alla duplice accezione, e a buon diritto possiamo sostenere il conseguente sillogism liberi di leggere = leggere per essere liberi.
Distinguere
Comunque, nel tessere le lodi della lettura occorre distinguere bene il genere dalla specie: leggere (il genere) e’ in tutti i modi opera meritevole per l’applicazione attiva di intelligenza e memoria, diversa dalla fruizione passiva e superficiale dei messaggi televisivi. Ma non bisogna dimenticare la qualita’ della “specie”, essendoci lettura e lettura: un conto e’ sfogliar supinamente materiale leggero, riviste rosa, settimanali pettegoli o fumetti vari, un conto affrontare un libro denso di significati, cercando di comprenderne le profondita’. In tal senso andrebbe recuperata la lettura del quotidiano, che, sfrondata del sensazionalismo commerciale piu’ sopra stigmatizzato, offre ancora spazi di riflessione negli articoli di fondo o di terza pagina.
Educazione alla lettura: una proposta
Piuttosto predicheremmo ancora qualche forma di “educazione alla lettura”, oggi mancante. La disaffezione non e’ caso solamente italiano, come sostiene Pennac nel suo “Come un romanzo”. Nel saggio del geniale autore francese, ad esempio, si propone una sorta di decalogo per avvicinare l’utenza alle esperienze libresche (schiere di lettori vi scopriranno con piacere i loro insindacabili diritti). In realta’ toccherebbe alla scuola, oggi deficitaria in quanto condotta da insegnanti formati nell’area televisiva. Un nostro suggerimento provocatorio riguarderebbe un’istruzione letteraria nel periodo di leva (anche perche’ la donna italiana scolarizzata di oggi legge piu’ degli uomini). é di questi giorni la notizia che il nostro ministro della difesa va studiando l’opportunita’ di tenere corsi di avviamento al computer per i giovani in forza.
Perche’, invece, non obbligarli alla lettura di almeno un libro per ogni mese di ferma? Ne sortirebbero cittadini piu’ evoluti, maturi, coscienti e civili. Per molti sarebbe una preziosa scoperta, come successe a me negli anni dell’adolescenza: ultimata la lettura de “Lo straniero” di Camus, mi resi conto che era iniziata l’avventura intellettuale della mia vita; poi, passato a Proust, imparai a riconoscere e scandagliare i moti della coscienza profonda, la maturazione individuale non poteva compiersi senza il confronto col pensiero altrui, un confronto che, esaurito il compito di genitori e scuola, potevo trovare solamente sulle pagine di un libro. Per concludere, mi rifarei ancora una volta al pensiero di Hegel gia’ citat se la preghiera del mattino dell’uomo moderno non puo’ essere quella dei quotidiani, per i motivi espressi in apertura, certamente potrebbe esserlo la lettura, o la rilettura, di alcune pagine dei libri a noi piu’ cari, della nostra “bibbia personale”.
Il tempo non era piu’ quello bello, torrido, della fine del Miocene. Di mezze stagioni ormai non se ne parlava proprio piu’. L’attivita’ vulcanica era rallentata e il clima stava diventando, sempre piu’ terribilmente, freddo. L’intensa orogenesi aveva fatto sorgere alte, impenetrabili catene montuose e in seguito al profondo mutamento le foreste tropicali si erano ridotte, sostituite da estese praterie. In mezzo a esse, le alte conifere resistevano ancora anche se in numero ridotto per poter ospitare confortevolmente le prolifiche famiglie del Clan.
Un mattino, di buon ora, Hulf Ramapithecus non riusci’ piu’ a sopportare tutta la promiscuita’ tra i rami della araucaria. Penso’ che il senso dell’esistenza, per forza evolutiva, non poteva che essere piu’ ampio. Scese al suolo. Subito si rotolo’ tra le nane felci. Il suo corpo si impregno’ di umidita’ mentre le narici aggrinzirono dal pressante odore di putrefazione della vegetazione. Istintivamente avverti’ una inspiegabile sensazione di potere. Quella nuova solida stabile base di terraferma gli cedeva sicurezza. Gli altri ominidi del suo Clan non si accorsero subito della sua assenza tra i rami. Soltanto nella tarda mattinata, al vibrare ossessivo di foglie, a persistenti fregamenti del suolo e allo spezzare di ramoscelli, e dopo aver temuto la presenza di qualche famelico ungulato predatore, riconobbero nel loro Hulf la fonte della confusione al suolo. Lo videro agitarsi e muoversi con rapidi scatti. Quindi fermarsi di botto. Raccogliere semi e radici. Nutrirsene. Infine lo sentirono ruttare satollo mentre si sedeva in terra, alla base del loro albero, tenendo la schiena in una buffa posizione eretta. Il Clan che prima si era divertito a osservarlo, si impensieri’ davanti a quell’inerzia. Poi col passare dei minuti, si annoio’. Si disinteresso’ di lui per tutto il resto della giornata. Era ormai buio fitto. La voce di Hulf Ramapithecus scoppio’ improvvisa e si innalzo’.
“Saranno libere le mani”
Grave e profetica: “Sara’ definitiva la capacita’ e l’abitudine di mantenere la colonna vertebrale in posizione verticale. “Gli spostamenti verranno effettuati usando esclusivamente i due arti posteriori. “Cio’ liberera’ le mani. Le dita acquisteranno sempre maggior abilita’. Arriveranno gli eretti. I sapiens. I sapiens-sapiens. L’entita’ geografico-astronomica corrispondente alla massima ampiezza, di sfondo e substrato, della vicenda umana e naturale diventera’ in grado di corrispondere alle esigenze specifiche determinanti della propria struttura e organizzazione in tutto il complesso degli aspetti culturali, sociali e spirituali, relativi a una collettivita’”. Poi Hulf Ramapithecus tacque.
Spari’ e come in un trucco cinematografico, gli ominidi videro la trazione della pellicola prima fermarsi sull’immagine di lui, per poi riprendere il funzionamento quando lui era gia’ uscito dal campo visivo. Strillarono “o…o…”. Saltellarono interdetti tra i rami. Strepitarono “t..t..”. Spauriti “a..a..” e si accovacciarono ancor piu’ stretti al grembo della conifera. Pur non conoscendo ancora il significato della preghiera si misero fervidamente a pregare ogni qualsiasi dio che potesse concedere loro, immediatamente, il sonno dei sereni.
“Nascera’ il linguaggio”
L’alba ne colse parecchi ancora insonni. Solo la crescita del giorno riusci’ a infondere in tutto il clan, insieme al tepore, la capacita’ di sopire nel profondo quella voce passata e quell’immagine del loro ex compagno. Tutto riprese e tutto continuo’ a funzionare per l’intera giornata. Poi, all’imbrunire, ancora improvvisa, la voce di Hulf. Gutturale e stentorea: “Ai vari segni cui corrispondono gli oggetti, si sostituiranno dei suoni collegati. Poi un segno indichera’ un suono elementare. Si tracceranno su una superficie i segni convenzionali della lingua relativi ai suoni vocali e consonantici che formano le parole al fine di riprodurre frasi, periodi, concetti, e idee elaborati dalla mente. All’insieme delle convenzioni, i componenti delle comunita’ daranno caratterizzazione semitica, cananaica, egizia. Supera, fenicia. Greca, etrusca. Per le genti romane sara’ latino. Fonte per Firenze. Ciascuno ne fara’ una interpretazione funzionale per conseguire vari livelli di informazione, di conoscenza, e di partecipazione affettiva. Si inventera’ un mezzo in cui ci si potra’ attivamente ed abitualmente servire. Tale strumento sara’…”.
“E il suo strumento sara’”
La voce di Hulf esito’. Riprese nasale: “Avra’ un formato e una presentazione esteriore”. Meno tonante: “Sara’… chiamato… il nome sara’…”. Esile: “Nell’accezione latina avra’ nome…”. Esitante: “non ci sara’ piu’ solo la “o” come suono vocalico simile al soffio. Il nome congiunto e anteposto a esso “o” creera’ nell’idioma italiano l’uomo esente da ogni costrizione, pregiudizi o limitazioni sul piano morale, sociale, politico. “Troveranno pronuncia consecutiva la consonante esplosiva dentale sorda e la vocale fondamentale, con articolazione succedanea nell’appoggio della lingua contro gli incisivi superiori e la massima apertura delle labbra e lingua in posizione di quali assoluto ripos “ta”. “E il nome ancora congiunto e anteposto a esso “ta”, con la vocale finale rafforzata, conseguira’ ancora nella lingua fiorentina quel massimo stato di autonomia essenzialmente sentito come diritto e come tale garantito da precise volonta’ e coscienze. Questo elementare strumento, presupposto necessario alla costruzione di ogni evoluzione, sara’ chiamato…”.
La voce di Hulf esito’ di nuov “sara’ chiamato…”. Ripete’: “… sara’ chiamato… il nome latino sara’…”. Hulf Ramapithecus, proprio in quel momento, venne azzannato da una tigre dai denti a sciabola. Ne vide solo il feroce, rapido scintillio. Ebbe ancora un attimo e, tra un’esplosione di luce vivida, fece in tempo a intuire il formato in folio, in ottavo, in sedicesimo e la presentazione in brochure, legato in pelle, in tela. Non il nome.
Chi sa fa e chi non sa insegna.
Chi sa vive, e chi non sa scrive.
D’istinto sento che cosi’ e’ vero.
E’ legittimo, allora, chiedersi se davvero quello della scrittura sia il segno di una profonda mancanza, dell’incapacita’ di essere talmente dentro il cuore della vita da non avere bisogno di raccontarla.
Civilta’ preziose come quelle dei nativi d’America hanno saputo lasciare un segno profondo senza dover ricorrere alla scrittura, liberi di vivere – finche’, ahime’, noi glielo abbiamo permesso – il proprio ciclo vitale e di rispettarlo nella sua sacralita’ senza bisogno di un segno. Lo stesso fecero i Celti.
A ben vedere, invece, tutta la nostra storia – intendo quella da Roma in poi – e’ “malata” di questa incapacita’, se e’ vero che non riusciamo nemmeno a concepire un modo di comunicare, tramandare la nostra storia, che non passi attraverso la scrittura.
Ne’ si puo’ negare, tuttavia, che spesso i grandi libri – a questi in particolare mi riferisco – siano carichi di una tale energia creativa, da essere essi stessi fonte di vita.
Una vita “altra”, che si libera dello scrittore diventato “medium”, talvolta anche in senso proprio. E che produce frutti, dove il terreno e’ pronto per accoglierne il seme. Ecco, forse e’ questa l’unica via d’uscita possibile dal “non sapere” di noi occidentali: superare il proprio individualismo e il proprio “amore-possesso” per la parola scritta, e umilmente, coraggiosamente, lasciare che la forza creativa della realta’ si esplichi in tutta la sua liberta’. La scrittura ritrae e il medium-scrittore, come lo sciamano, racconta il proprio volo e lo lascia, fiducioso, al destino dei posteri.
Le filastrocche: un genere letterario dalla straordinaria potenza comunicativa, riscoperto dalla moderna didattica, e una meravigliosa pratica della liberta’ di pensiero e di espressione
Vento bizzarro, vento monello, quando fa brutto e quando fa belloÉ
si potrebbe continuare per ore, collezionando una dietro l’altra parole senza senso e consequenzialita’,
vento che porti le nuvole nere, chi stava in piedi si metta a sedereÉ
Ma che cos’e’ la filastrocca? Sarebbe facile trovare una definizione. Ma nulla ci direbbe di un genere tanto indefinito eppure cosi’ riconoscibile. Dato oggettivo e’ che il suo pubblico, i bambini, gli e’ fedele, oggi come in ogni tempo. Ed essendo uno fra i pubblici piu’ esigenti, e’ un risultato degno di nota.
Liberta’ per giocare
Per fortuna c’e’ chi considera questo strano genere qualcosa di piu’ che un semplice carosello di parole. Perche’, altrimenti, tanti scrittori moderni per l’infanzia (a cominciare da Rodari, Orengo, Piumini, Scialoia) avrebbero perso il loro tempo con versi e rime? Forse perche’ prima che luogo letterario, la filastrocca e’ un luogo fisic e’ il cortile della scuola dove si gettano i libri e ci si rincorre, dove un albero diventa un razzo interplanetario e una panchina una locomotiva a vapore. Come fa la favola: portare oltre, in un posto che non e’ reale, o meglio un posto in cui la realta’ che conta e’ solo la propria.
In questo la filastrocca ha piu’ liberta’ di movimento perche’, senza render conto di una struttura narrativa, puo’ far cio’ che vuole: puo’ non raccontare niente (anghingo’ tre galline e tre capponÉ), puo’ raccontare senza una storia (il merlo ha perso il becco, povero merlo mioÉ), puo’ non avere fine (c’era una volta un re seduto sul sofa’É), puo’ essere solo suono (a-uli’-ule’…). Puo’ infischiarsi di qualsiasi regola. A tal punto che spesso – quando non ha scopo didattico – non si percepisce il contenuto, proprio perche’ non e’ importante. Ricordo per esempio un bellissimo coliacco coliacco versaglier, che molti anni dopo (e con mio grande rammarico) scoprii essere con gli altri con gli altri bersaglier. Ma allora a legittimare quel verso, di una filastrocca che tanto mi piaceva, era bastato un suono, una cadenza.
Questa – come altro definirla? – e’ liberta’, in tutti i sensi. E forse e’ proprio questa la definizione che meglio coglie la natura della filastrocca, liberta’, di fine, di pensiero, di espressione. Paradossalmente e’ forse questa assoluta liberta’ a rendere tanto efficace il potere di comunicazione della filastrocca. Filastrocche corte o lunghe vengono oggi usate per l’insegnamento della ritmica musicale e dei primi rudimenti di intonazione vocale; ci sono filastrocche per studiare la storia, la geografia, la grammatica, i mesi dell’anno e i giorni della settimana. Le sette note possono cosi’ diventare:
Liberta’ per imparare
Dorme la luna
Regina della notte
Mille sorelle
Fan le pere cotte
Sole che splende
La notte che acchiappa…
Si beve una grappa
Liberta’ per creare
Fu cinque o sei anni fa che sperimentai per la prima volta in una classe elementare il potere magico della filastrocca, mentre facevo i salti mortali per tener quieti quei diciotto scalmanati per un’intera ora. Capii presto che non avrei cavato un ragno dal buco richiamando Chiara o sgridando Nicola. Perche’ per uno che zittivo, ce n’eran quattro che mi saltavan sulla voce. Dovevo ripiegare altrove. E siccome nel cassetto c’eran matite colorate e una risma di carta nuova, portai tutti in giardino e cominciai un nuovo gioco. “Lavagna!” gridai. La risposta fu inevitabilmente “Lavagna!”. “La lavagna… Mariarosa” gridai ancora. E questa volta le risposte furono tre: “Si riposa!”, “Giocosa!”, “Spuzzolosa!”.
A parte spuzzolosa, avevamo due ottimi spunti per una nostra filastrocca. “La lavagna Mariarosa” proseguii, “e’ giocosa e si riposa!” Poi: “E domani si sposa!” Dal momento che il metro e il senso andavano a farsi benedire, mi liberai a mia volta di regole e tabu’. Nacquero la lavagna Mariarosa, la retta Bettina, la Pi equilibrista, la Emme che va a Gerusalemme, e altre filastrocche senza capo ne’ coda, attingendo al bagaglio genetico della libera spinta creatrice.
Realta’ virtuale. Cyberspazi. Reti. Megabytes. Memorie ram. Fibre ottiche. Bum. Domanda: si pu˜ essere radicati nella propria societa’, sentirsi al passo con i tempi e allo stesso tempo provare un senso di smarrimento, un senso di perdita per alcune cose care e da alcuni spacciate per sempre piu’ obsolete? Memoria storica, fruscio, emozione tattile, narici saturate dal profumo dell’inchiostro. Oppure senso di possesso e appagamento della curiosita’, brivido provocato dalla profanazione dei santuari del sapere e consapevolezza di assorbire cultura, passione, fantasia, in una parola intelligenza; questo non vorrei si perdesse.
Nostalgico? No, grazie, ma con un desiderio-speranza: non arrivare a dover istituire un fondo speciale per la tutela del valore assoluto del Libro come “nutrimento per le menti del terzo millennio”, cosi’ come gia’ lo e’ stato per una parte del primo e per tutto il secondo. Libro-oggetto, libro-desiderio, libro-segno, libro-tempio, libro che ha educato, ammaliato, illuminato, liberato generazioni, che ha subito venerazioni, offese, evoluzioni tecnologiche, roghi e messe al bando, ma anche libro filo conduttore dell’esistenza e della storia dell’uomo, passato indenne tra tutto e tra tutti, ancora oggi caposaldo di una civilta’.
Amo il Libro, amo i libri, di un amore incondizionato verso quelli che racchiudono sostanza e di un amore rabbioso verso quelli che racchiudono un contenuto che usurpa il concetto stesso di essere definiti libri, di un amore affettuoso e passionale verso quelli che hanno costituito la colonna vertebrale del mio piccolo e umile percorso verso il sapere. I miei libri, quelli legati a momenti, eta’, emozioni, scoperte, da Incompreso allo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, da I ragazzi della Via Pal a Il Piccolo Principe, dal Giovane Holden al Gabbiano Jonathan Livingstone, da Furore alle Confessioni di Sant’Agostino, dall’Emilio a Elianto, passando per Machiavelli e per Baudelaire, per i classici greci e latini, per Sciascia e per Cervantes, per Baricco e per Fo, per Suskind e per Auster, per Pennac e per Liala e per almeno un centinaio di altri “padri della mia formazione”. E mi sia concessa una liberatoria e affettuosa menzione speciale per “il padre di tutti i miei libri”, la Divina Commedia, la consapevolezza della cui geniale grandezza mi ha accompagnato al piacere di leggere e alla indegna velleita’ di scrivere.
Libri-compagni di viaggio, dal viaggio di trasferimento al viaggio metaforico della vita, e poi libro-compagno di conquista, una donna ammaliata leggendole un libro ad alta voce, libro-compagno di pensiero, la gioia di leggere un libro e di pensare a una persona e di regalare a lei quel libro, per il solo piacere di condividere un’emozione, ma vogliamo mettere! Scripta manent, dicevano gli antichi, rimangono, ma non solo, vanno oltre, si proiettano verso il futuro, si candidano a un ruolo oltre il tempo e oltre lo spazio; e che vadano dunque, sulle ali di carta continuino a renderci liberi di leggere e si facciano leggere per renderci liberi, di volare alti e di essere profondi, di essere profondamente uomini.
Molti si rammaricano che si legga poco, che si legga in pochi. Vero. Verissimo. Ma e’ solo perche’ tanti ci hanno detto di leggere, nessuno ci ha mai insegnato a leggere. Ecco un aspetto su cui lavorare, affinche’ noi, i depositari del piacere di leggere possiamo trasmettere a chi ci sta intorno questo dono, e chi sa che con questa azione semplice e complicatissima non possiamo contribuire a cambiare un po’ di quel mondo nel quale i nostri figli dovranno comunque vivere e, speriamo, leggere.
Bisogna imparare a leggere per imparare a scrivere.
Dalla co-autrice di “Scrivere. Una fatica nera”, un invito a leggere, anziche’ i manuali di scrittura, i libri. Quelli veri
Eccoli la’”. Ho chiest “Chi?”. E lui ha ripetut “I giornali”. In quel momento il giornalista si e’ diretto verso di noi. Era un uomo piuttosto anziano, simpatico, si e’ rivolto a me sorridendo e mi ha detto che sperava che tutto sarebbe andato bene. L’ho ringraziato e lui ha aggiunt “Sa, abbiamo un po’ montato la sua faccenda. L’estate e’ la stagione morta per i giornali. E non c’e’ che la sua storia, che valga qualcosa”.
Cosi’ Albert Camus, verso la fine del processo per omicidio raccontato ne “Lo straniero”. L’ho letto in vacanza, l’estate scorsa, subito dopo “Delitto e castigo” (un altro processo per omicidi perche’ mai segnare cosi’ le vacanze?). Questo ricordo, e cosi’ pure la riflessione che ne segue, e’ dedicato a chi vuole fare gia’ adesso un pensiero sulle prossime ferie estive. In estate, lo ha detto Camus, ma lo pensiamo tutti, i giornali si scrivono svogliatamente, e altrettanto svogliatamente si leggono. Maggior vantaggio, allora, si puo’ trarre dalla lettura di un libro. Soprattutto per chi, come me, si occupa di comunicazione scritta.
“C’e’ nella letteratura qualcosa che solo attraverso la lettura si coglie”, come ricordava Beniamino Placido in un recente articolo su “Repubblica” dedicato al valore del leggere. Un valore da riproporre con forza soprattutto ai giovani, colpiti, pare, da sempre piu’ accentuato disamore per la pagina scritta. I giovani non leggono, dicono i sondaggi, o leggono pochissimo (sara’ poi vero?), non sembrano aver tempo da perdere sui libri, non conoscono i classici. Si dicono disponibili, al piu’, ad “ascoltare” un libro, nelle sempre piu’ diffuse edizioni “in cassetta”, ideali per la spiaggia come per il tram. Ma ascoltare un libro non e’ come leggerl come si fa a sottolineare una frase, una parola? Dove annotare un pensiero, se non a margine della pagina scritta? Un pensiero da approfondire, da sviluppare, o semplicemente da scolpire nella memoria, per riutilizzarlo alla prima occasione opportuna?
Si dice che scrivere sia come leggere due volte. Chi ha provato a insegnare qualcosa a qualcuno, per esempio, si e’ convinto che insegnare e’ il miglior modo per imparare? Che costringe a metter bene a fuoco i concetti fondamentali, a legarli fra loro in forma chiara e congruente, prima di trasmetterli agli altri? Analogamente, scrivere e’ tra le migliori applicazioni del leggere. E non parlo tanto delle letture professionali; parlo di quell’abito mentale che si acquisisce attraverso la passione per la lettura, attraverso quell’accendere l’immaginazione che fa lavorare il cervello e il cuore. E che fa scaturire altrettanta immaginazione, pensiero creativo, idee originali; un patrimonio che altro non e’, in definitiva, se non il frutto di sedimentazione, assimilazione e rielaborazione di quanto recepito dai libri.
Nulla si crea, infatti, e nulla si distrugge. Tutto si trasforma. E non si tratta solo, o non principalmente, del “Sapere”; ma di quanto entra nella coscienza anche senza il nostro vaglio, senza che ce ne accorgiamo. Uscira’, un giorno, perche’ l’avremo fatto nostro. Con un’espressione un po’ piu’ cruda, ma pregnante, un mio amico dice: “Perche’ qualcosa di buono si tiri fuori, bisogna che qualcosa di buono continuamente venga messo dentro”. Bisogna imparare a leggere, insomma, per imparare a scrivere. E a quel lettore scettico, che sta forse pensando “io leggo molto, ma non sento per questo migliorare la mia scrittura”, dedico un ultimo pensiero autorevole (Daniel Pennac): “Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere”. Mica poco.
Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo e’ un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un si’ o per un no.
Considerate se questa e’ una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza piu’ forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.
Meditate che questo e’ stat
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.
(Primo Levi, “Se questo e’ un uomo”)
Basterebbero queste parole di uno dei libri piu’ struggenti di questa seconda meta’ di secolo per capire. La sua lettura ci rende liberi. Il prezzo pagato da Primo Levi per scrivere il suo racconto sta tutto in quel racconto. E il suo racconto ha schiacciato l’orrore che voleva annientarlo. L’uomo ha vinto la barbarie, verrebbe da scrivere se… Se un altro libro non mi avesse ricordato che la barbarie e’ pronta a colorarsi di ogni colore. Gli orrori del nazismo si ripetono nel nome del comunismo. Il Nemico, quello con la N maiuscola, quello che trama contro l’uomo, veste le casacche di ogni colore, siede sugli scranni di ogni ala del parlamento. Me lo ha fatto capire un monaco tibetano. Si chiama Palden Gyatso e ha scritto un libro che ogni uomo di questo fine millennio dovrebbe leggere: “Il fuoco sotto la neve”.
Questo monaco e’ rimasto 32 anni nei lager cinesi in Tibet. In questi 32 anni hanno schiacciato la sua dignita’, ha patito la fame, gli hanno rotto tutti i denti, ha subito la tortura del manganello elettrico, e’ rimasto per mesi con le mani incatenate dietro la schiena, gli hanno impedito di praticare la sua religione, ha lavorato fino allo sfinimento. Qualche suo amico non ce l’ha fatta. Un milione e duecentomila tibetani (una popolazione di 7 milioni), sono morti dal ’59 a oggi a seguito dell’occupazione e della repressione comunista cinese. Oggi nei lager cinesi in Tibet ci sono perfino degli adolescenti. Un bambino di sette anni e’ tenuto segregato in qualche angolo della Cina solo perche’ il Dalai Lama lo ha riconosciuto la reincarnazione del Panchem Lama, seconda autorita’ del buddhismo tibetano. ÇConsiderate se questo e’ un uomoÈ…
Scrive il venerabile Palden: ÇNella mia prigione solevamo cantare: “Un giorno il sole risplendera’ fuori dalle nuvole nere”. La visione del sole che disperdeva le nubi e la nostra forza d’animo ci permisero di sopravvivere. La nostra volonta’ collettiva di resistere a cio’ che e’ ingiusto e’ come una fiamma inestinguibile. Guardando al passato capisco che l’amore dell’uomo per la liberta’ e’ come un fuoco che cova sotto la neveÈ.
Non e’ un cas la prima cosa che il Dalai Lama ha chiesto a Palden Gyatso e’ stata quella di scrivere la sua storia. Primo Levi rivive in lui, il dramma dell’Olocausto si ripete in Tibet e la’ dove la dignita’ dell’uomo non esiste piu’. Ma solo un libro puo’ raccontarlo. E allora, solo allora, si comprende la “maledizione” lanciata da Levi: perche’ dopo che il libro ti ha liberato dall’ignoranza, ti ha fatto conoscere dove si annida il Nemico, non si puo’ non “ripeterlo ai nostri figli”.
Conclude Palden Gyatso nel suo libr ÇGli oppressori negheranno sempre di essere stati oppressori. Tutto cio’ che posso fare e’ rendere testimonianza di quanto ho visto e vissuto e narrare il tragico viaggio della mia vita. La nostra sofferenza e’ scritta nelle vallate e nelle montagne del Tibet. Ogni villaggio e ogni monastero nel Paese delle nevi puo’ raccontare storie di crudelta’ inflitte al nostro popolo. E tutte queste sofferenze continueranno finche’ il Tibet non tornera’ liberoÈ. Sembra la parabola della storia dell’uomo, alla ricerca della propria liberta’ di essere cio’ che e’. Come si fa a non raccontarlo ai nostri figli?
Eccolo qua!! Il solito blocco da pagina bianca. Eppure mi era sembrato facile scrivere sul leggere! In fondo si legge cio’ che si scrive. Gia’, soltanto che sono altri ad averlo scritto e se avrete ancora voglia di continuare la mia lettura vi garantisco che e’ meglio lo abbiano fatto loro. Inizio questo articolo partendo da un ricordo, con la promessa solenne che sara’ anche l’ultimo. Il viaggio sul filobus 34 che in 45 minuti mi portava da casa ai campi da tennis. Avevo 14 anni. Questo torrido viaggio di piena estate mi consegno’ alla liberta’ e alla lettura. Immaginatevi una ragazzina con la sacca da tennis appollaiata sui tubi d’acciaio (perche’ faceva figo sedersi cosi’ a dispetto di decine di posti vuoti) che leggeva “Guerra e Pace” appena sfilato dalla libreria di sua nonna.
Da quel giorno ripetutamente e volontariamente mi sono liberata da me stessa (quasi tutti gli adolescenti si detestano) per vivere cio’ che piu’ mi piaceva, Anna Karenina, la donna spezzata, Elizabeth Bennet, mi e’ spesso successo di vivere da uomo, Oblomov, Werther, il giovane Torless, libera di essere cio’ che piu’ mi piaceva. Superata questa fase fantastica, tuttavia obbligata, la lettura puo’ essere dimenticata, mantenuta superficialmente con la scusa della stanchezza da studio o da lavoro, oppure testardamente perseguita magari nelle ore notturne mentre i figli dormono o di nuovo sui tram che ti portano in ufficio (a patto di un’alta capacita’ di concentrazione). Abbiamo tutti seguito le mode, compresa quella di portare un libro sotto il braccio, possibilmente con titolo di tendenza, e a furia di passeggiarlo qua e la’ sembrava davvero che l’avessi letto, tanto si era consumato. Non aveva importanza se dopo la prima pagina era gia’ stato abbandonato al suo destino. Ma vuoi mettere leggere Panorama o Espresso sul treno piuttosto che Novella 2000? Eppure quest’ultimo e’ molto piu’ divertente, perche’ se si parla di liberta’ questo davvero ti libera la mente da pensieri troppo seriosi sbandierandoti in prima pagina che pure le principesse si sono beccate le corna!!!
Da attenti e liberi lettori non dovreste trascurare nulla, compresi i messaggi erotici scritti sulle pareti dei cessi pubblici. Un vero spasso, ma mai nessuno che ne parli o pensi di farci un libro. Chiusa la porta e sbottonata la cerniera dei pantaloni l’occhio vi e’ sicuramente caduto piu’ volte (confessatelo, lettori incalliti e amanti del perfetto stile!!!) e ci e’ rimasto magari a lungo. Che dire poi dei graffiti urbani e suburbani? (Ultimamente vanno molto di moda le pareti rocciose delle montagne). Trascuriamo l’incivile barbarie di quelli che usano monumenti e cose simili tradendo la memoria storica e artistica.
Ma quelli sui muri, sui metro’, sulle facciate delle case popolari vivacizzano il grigiore dei blocchi di cemento armato adibiti a civili abitazioni e dimostrano che anche i punk (e tribu’ simili) hanno un’anima. Leggendo i loro messaggi scopri un’altra parte del mondo, quella che di solito per strada eviti e che magari ti fa anche un po’ paura se in gruppo ti sta seduta vicino sul tram. Evviva la scuola dell’obbligo se da’ anche a loro la possibilita’ e la capacita’ di comunicare con tutti!!! Leggere, leggere, leggere di tutto per liberarti dalle tue certezze e poi ritornarci piu’ ricco, piu’ forte.
Questi tanti che hanno scritto mi hanno dato liberta’ e continuano a darmene tenendomi bene la mente sul mondo e sul genere umano. Eccesso di liberta’ causa eccesso di lettura? Non sono a conoscenza di contravvenzioni in proposito. E voi?!?