Ciao! E’ un po’ che non ci vediamo. Come avrai notato non siamo usciti per qualche mese. Oggi, pero’, possiamo proprio brindare. E’ per questo che abbiamo deciso di fare un numero sul vino, per fare un grande brindisi con i nostri lettori e festeggiare alcune novita’. La prima: abbiamo cambiato editore. La redazione ha rilevato la testata COMUNICO per offrirla con la consueta liberta’ ai suoi lettori. Il concetto non e’ nuovo, lo dice da anni un grande maestro come Indro Montanelli, ma a noi piace molto. Gli unici padroni di COMUNICO sono e saranno i suoi lettori. E’ per questo che invitiamo tutti a scrivere, a esprimersi, a aiutarci nel fare un giornale differente. Crediamo nell’ascolto. La comunicazione e’ essenzialmente recepire i messaggi di ritorno. Non vogliamo parlare “a” voi, vogliamo parlare “con” voi. Per questo, per farvi venir voglia di collaborare, annunceremo su ogni numero il tema del numero successivo. Tutti coloro che avranno qualcosa da dire potranno scrivere.
Seconda novita’. Abbiamo aperto uno Spazio dove incontrarci. Si chiama Spazio COMUNICO, e’ una sala da 80 posti, nel centro di Milano, dove fare conferenze, riunioni, presentazioni. Ogni martedi’ alle 18,15 saremo li’ per incontrare i lettori e gli amici.
Infine, non c’e’ due senza tre, e’ uscito “Comunicare: un passaporto per il terzo millennio”, un libro che ho scritto raccogliendo gli spunti e i pensieri a ruota libera, scaturiti in 25 anni di professione. Prosit.
Tema del prossimo numer l’olfatto
Piu’ di tutti i mass-media, il vino sa avvicinare le persone, capace com’e’ di scatenare sensazioni di ogni tipo, e di mescolarle in esperienze memorabili.Vista, udito, tatto, olfatto e gusto giocano insieme nel piu’ antico e attuale degli strumenti di comunicazione
“Le bon dieu qui descend dans la gorge en culotte de velours rougeÓ.
Cosi’ un giorno ho sentito descrivere da un amico francese il Beaujolais. Saranno anche poco simpatici, i francesi. Ma la senti la poesia? Mica solo “dio”, ma “il buon dio”. Un dio amico, che ti parla, che ti tiene compagnia, e che e’ buono, proprio come un buon vino. E la vedi la scena? Il buon dio che ti scende nella gola, leggiadro come una farfalla, elegante come un putto, allegro come un fauno. Un dio-farfalla-putto-fauno, buono da sentire, bello da vedere. E delicato da toccare, col suo bel paio di mutande, di velluto, rosso, per giunta. Sentire? vedere? toccare? che c’entra col vino? Il vino in realta’ si gusta, al massimo si annusa. E’ proprio questo, invece, che m’interessa esaminare: la capacita’ del vino di sollecitare tutti i sensi, non solo quelli a lui da sempre dedicati, e di farne degli efficacissimi strumenti di comunicazione. Comunicazione con se stessi, per prima cosa. E poi, soprattutto, comunicazione con gli altri.
Amore a prima vista
Un tempo gli esseri umani erano equamente ripartiti: un terzo di visivi, un terzo di auditivi, un terzo di cenestesici. Uno su tre (visivo) imparava e si esprimeva essenzialmente attraverso cio’ che vedeva: forme, dimensioni, colori, immagini, segni, numeri. Un altro (auditivo) attraverso cio’ che sentiva: suoni, parole, musiche, rumori, versi, toni di voce. Un altro (cenestesico) attraverso esperienze degli altri sensi; ruvido, liscio, ispido, morbido, duro, moscio, caldo, freddo; dolce, amaro, salato, aspro, piccante; intenso, acre, delicato, pungente. Ma poi la televisione, il cinema, e quindi i computer, i cd-rom, internet, hanno sviluppato in noi piu’ di ogni altro il canale visivo. Ecco perche’ anche del vino mi si accendono davanti agli occhi soprattutto delle immagini. Sono etichette, per esempio. Foto, disegni, sagome di vigneti, curve di botti o di grappoli, profili di antichi vignaioli, o altri vezzi grafici. E sono i loro colori: marzemini con etichette rosse o verdi; teroldeghi con bollini blu; verduzzi e sauvignon e lambruschi e orvieti e frascati e falanghine e delizie di ogni terra, dietro preziosi logotipi dorati.
Sono poi i colori del vino. Visti nel vetro di un calice, davanti alla fiamma di un camino o alla luce di una lampada. Il bruno caldo di un barolo, il rosso giovane di un novello, il biondo vivace di un prosecco, un tenue e indeciso rosato. Segni e colori legati al vino stesso, al suo spazio, ai suoi momenti. Ma anche ben oltre. Guardare il vino e’ rivedere scorci di vita. E’ memoria. Vent’anni. In caserma. Negli alpini si canta, si parla di donne, si gioca a carte, si ride di storie raccontate in dialetto. E si beve. Assaggia questo, l’ha fatto mio nonno, tiriamo il collo a questa, chi arriva ultimo paga da bere. Mi rivedo alzarmi una notte, una corona ferrea intorno alla testa, la bocca incollata. Attorno alla branda una fila di bottiglie vuote.
Si usava punire cosi’ uno che “non regge”. Chi crollava dopo solo una ventina di bicchieri era caricato a spalle e scaraventato in branda; attorno a lui le bottiglie bevute, come ceri di una bara. Altro flash, molti anni dopo. Raduno di alpini. Tende da campo in ogni piazza, migliaia di uomini con la penna sul cappello che oscillano per la citta’, auto che portano sul tetto delle mucche di cartapesta, la cannuccia del bianco attaccata a una tetta, quella del rosso all’altra. Vino, insomma, come elemento di unione, per superare momenti difficili, per appartenere a un gruppo, per allontanare il senso di estraneita’ e la nostalgia di casa. Vino per ricordare, per fare festa, vino per cantare.
Vino per cantare
Mi son alpin…
me piase el vin…
In un canto di montagna, di guerra o di pace, di goliardia o d’amore, di natura o di preghiera, c’e’ quasi sempre un bicchiere di vino. Perche’ e’ vero, il vino fa cantare. Chiunque.
Gh’e’ chi dis ch’el vin el fa mal
l’e’ tuta gente, l’e’ tuta gente,
Gh’e’ chi dis ch’el vin el fa mal
l’e’ tŸta gente che sta in uspedal…
Io ne ho bevuto tanto,
e non mi ha fatto male,
l’acqua si’ che fa male,
il vino fa cantar!
Canti d’amore, di amicizie, di speranze e di tradimenti, canti di malinconia, a volte di spensierata allegria.
Trinca, trinca trinca,
buttalo giu’ con una spinta
poi vedrai
che bella festa…
Eccolo, il vero esperanto. Trinca, nel canto popolare. Drink, per gli inglesi. Trinken, per i tedeschi.
Trink, trink,
bruderlei trink,
lasse die sorge zu heim
Bevi, fratello, bevi, e lascia a casa le preoccupazioni. E non occorre, per far festa, che sia un gran vin
Ma che ce frega,ma che ce importa
se l’oste ar vino ci ha messo l’acqua…
Non basterebbero le pagine di questa rivista per un’antologia delle canzoni del vino. Perche’ il vino e’ allegria, e’ musica, e’ suono. Ascolta: lo gnic-gnic-gnic del cavatappi nel sughero, il boc del turacciolo che parte, o il puf dello spumante, e lo schschschsch del gorgogli’o, e il glu-glu-glu della mescita. Senti il brrrrrusch aspirato degli ingordi, il secco stoc della lingua sul palato, l’ahhhh sguaiato del fiato che si lascia andare, e infine il burp, o a volte il brrraaa della soddisfazione. Gran sinfonia, con i suoni del vino.
Toccare per credere
Che tra udito e tatto ci fosse un legame molto stretto potevo immaginarlo, per il rapporto di causa ed effetto. Se un suono si verifica, e’ perche’ qualcuno lo produce. Ci vuole un battere di mani perche’ si senta il battito, una pressione sui tasti rende vivo il piano, un pizzichi’o di corde fa vibrare la chitarra. (E’ forse un caso che, in spagnolo, suonare la chitarra si dica tocar guitarra?) E che dire di quei maestri delle percussioni che san suonare anche il vino? Forchetta e coltello nelle mani, una fila di bicchieri davanti, alti, bassi, sottili e panciuti, a calice e a boccale, pieni rasi o solo a meta’, qui il bianco, li’ il rosso, nell’altro il rosato, ed ecco un concerto realmente divino. Ma e’ il tatto puro, il tocco gentile sulla materia, che quelle mutande di velluto rosso mi richiamano alla mente.
Hai mai pensato alla differenza tra bere un bicchiere che ti sei versato tu e uno che ti ha versato un altro? Tra cominciare dal bicchiere e cominciare dalla bottiglia? E da quale bottiglia, da quali forme, che volente o nolente ti condizionano il gusto stesso del vino? Pensa agli strani spigoli di quel verdicchio, o alle rotondita’ del matheus, al ventre generoso di un fiasco di chianti o all’austera sostanza di un bottiglione, alla desolazione del 33 cl, tappo corona, formato aereo, e all’immensita’ del magnum; pensa persino alla gretta brutalita’ del tetrapak. Tanti vini diversi, da toccare.
Ma anche per toccare. Per sentire, per essere altro da se stessi, insomma per comunicare. Le strette di mano, gli abbracci, i cin cin al limite dell’infrangibile, le pacche sulle spalle, le carte da tressette scaraventate sul tavolo, con striscio e busso come colpi da falegname; i balli tirolesi, con quelle sberle al ritmo di weissburgunder, o le mazurche da balera, tutte Romagna e sangiovese. Questo e’ il vino, questa la sua reale materialita’, la sua solidita’ relazionale, a tutto dispetto della sua fisica liquidita’. Questa la sua tangibile vocazione festaiola, a disposizione di ogni essere vivente.
Persino di un cane.
Solo davanti a un fiasco de vin
quel fiol d’un can fa le feste
perche’ el xe un can
de Trieste el ghe piase el vin!
Che gusto c’e’, poi, a giocare col gusto, parlando di vino? Forse e’ piu’ divertente il gusto dei suoni, il gusto delle storie, delle descrizioni.
Gusto e retrogusto
Vino a Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG). Vitign 100% Nebbiolo coltivato nelle posizioni migliori. Colore: rosso rubino con riflessi aranciati. All’olfatt etereo, ampio, con predominanza di profumi speziati, di liquirizia, tabacco, cuoio e tartufo bianco. Al gust caldo, pieno, ricco di tannini pregiati, asciutto e leggermente amarognolo, con grande stoffa. Temperatura di servizi da 17¡ a 20¡ massimo. Abbinament piatti di carne importanti e formaggi. I grandi Cru’: Brunate, Bussia, Cannubi, Lazzarito, Marcenasco, Monfalletto, Ornato, Rocche, Villero. Le annate: 1947, 1958, 1961, 1964, 1971, 1974, 1978, 1982, 1985, 1988,1989, 1990, 1993, 1995.
(dalla carta “Barolo e Tartufo” del Four Seasons Hotel Milano)
Ficcaci il naso
In piedi, amico, per cortesia: questo e’ barolo, il principe dei vini. Il suo gusto e’ legato a quello del tartufo, principe dei cibi. Legame di terra, la Langa austera, e legame di tavola. Un legame intimo, sincero, da assaporare in un silenzio quasi religioso, senza che qualche trombone eno-gastro… e qualcos’altro te lo rovini con i suoi sproloqui su gusto e retrogusto.
Ficcaci ora il naso, in quel barolo. Li’ troverai, dimmi se sbaglio, il piacere piu’ grande. Se il bicchiere e’ adeguato, certo, se ti trattiene l’aroma nel suo ventre paziente fino a quando te lo incanala dentro le narici. E spera, anche qui, che non arrivi qualche avanzo di sommelier a declamare sulle “fragranze argillose dell’antica vigna orientale” o sulle “tipiche profumazioni del lato sud della collina, cosi’ austere nella loro atavica asprezza, e cosi’ ansiose di un rapporto amicale con il sorriso del sole…”.
Corri pure il rischio di ridurre il tuo piacere a un piacere solitario, amico lettore. Rassegnati, al limite, a una degustazione introspettiva, a un ascetico girarti il sorso nella bocca, ma evita come la peste quei tromboni, affetti, come direbe Calvino, da “terror semantico” in versione enologica; quei feticisti del vino che cosi’ poco hanno in comune con la sua genuina sensualita’, e che puzzano di birignao fin da lontano. Goditi, insomma, il tuo piacere, senza curarti dei vincoli della liturgia, e scegli le persone che lo sappiano dividere con te. Scegli chi sa celebrare un momento importante, di amicizia, di sincerita’, con un bicchiere di vino. Osservalo, quel momento, ascoltalo, toccalo, annusalo e gustalo fino in fondo. Sara’ un momento straordinario. Altro che dio, e le sue mutande di velluto.
Saggezza della terra, saggezza di una vita passata insieme. Speciale come il colore e il profumo di un Barolo d’annata
In quell’angolo incantato tra filari ordinati e tralci intarsiati e robusti il tempo pareva essersi fermato, come un montanaro che trattenga il fiato e si sciolga nel mondo dopo un’ascensione che lo ha portato sulla vetta, l’azzurro a schiacciarlo, avvolgerlo ed elevarlo. Sedevano uno accanto all’altra, il tempo aveva segnato i lineamenti preservando tuttavia intatte quelle caratteristiche che ne avevano provocato l’amore a prima vista. Lui la guardo’, teneramente. Un capitello corinzio di candidi capelli ad incorniciare un visetto raggrinzito nel quale sciabordavano due schegge del colore del mare. Anni di parole, flussi temporali nei quali concetti, perifrasi, allegorie, parabole e iperboli verbali colavano dal cervello alla bocca come le cascate di Iguasu’, anni di fonazioni, continue, affascinanti e inesorabili come una lama che appaia d’improvviso a lanciare bagliori sinistri in un suk. Anche adesso, lo sguardo altalenante tra un grappolo brunito filtrato da una caraffa di moscato e una dimostrazione di moto perpetuo abbinata ad una bocca, il vecchio ragazzo ascoltava il fluire incessante delle parole, un’architrave di vocaboli che pareva non potersi interrompere, pena il crollo di quel palazzo di concetti e di rassicurante svuotamento degli archivi celebrali.
Lontano dai rumori del giorno
Il vecchio ragazzo, nel cui viso sereno e segnato dai solchi della saggezza della terra ancora si intuivano le belle fattezze del fiero vigneron, lancio’ uno sguardo pacato alla distesa di morbide colline, fonti di vite e di vita, isolandosi mentalmente dalla cascata di suoni che accompagnava da tempo immemore la scansione delle sue giornate. Il fresco del calice sulla mano lo fece ritornare alla realta’ in tempo per annuire sorridendo alla domanda della compagna, la cui risposta era comunque gia’ compresa nel proseguimento del monologo. Spargendo i suoi ultimi caldi raggi sull’universo caro a Bacco, il sole tramontava all’orizzonte, sfinito lui pure dall’allegro, logorroico chiacchierio che ne aveva accompagnato la diurna traversata. Anche gli uccelli tacevano, vinti dall’impari confronto col perpetuo vocio dell’arzilla nonnetta.
“Ora” – il vecchio ragazzo capi’ che non poteva perdere quel momento, nel quale, dopo anni, aveva l’occasione di avere intorno a se’ quelle vibrazioni che gli procuravano le sensazioni piu’ care: colori, profumi, suoni. Si concentro’. Estrasse dalla tasca interna dell’impeccabile giacca di lino chiaro la sua preziosa fiaschetta, l’apri’ e ne verso’ il contenuto, lentamente, come seguendo un antico rituale, in un bicchiere di cristallo. Gli sembro’ per un attimo di percepire un silenzio irreale, ma una rapida occhiata al labiale della nonnetta, da cui fuoriusciva il consueto, irrefrenabile, sonoro, lo tranquillizzo’.
Il brindisi piu’ prezioso
Alzo’ in controluce il calice, rimirando soddisfatto le fantastiche sfumature rubino di un superbo Barolo del 1964. Anche per lui era passato il tempo di una vita. Lui, Lei. Il Barolo. Tutti e tre li’, compagni affettuosi e testimoni silenziosi, lui ed il Barolo, del fluire delle stagioni. Alzando la tesa del panama pagliato che racchiudeva i capelli ormai canuti, il vecchio ragazzo impercettibilmente levo’ il minuscolo apparecchio acustico che costituiva il ponte tecnologico con l’apparato della comunicazione dal mondo, e si sorprese a contemplare il bizzarro movimento delle labbra a cui, miracolosamente, non era associato nulla. Poi alzo’ il calice e in un silenzio mistico brindo’. Alla parola, all’uva e al loro unico ed inimitabile connubio.
Sorgente di ricordi, il vino e’ anche ispirazione e fonte di creativita’.
Nell’arte, nella letteratura e soprattutto nella vita
Parlare di comunicazione e vino a un torinese verace, be’ allarga il cuore. Finalmente un’occasione per uscire dai soliti vecchi stereotipi “Torino = Fiat, Torino nebbiosa, Torino grigia, Torino noiosa” e per indagare un po’ piu’ a fondo altri importanti aspetti della cultura e del costume locale, dove il vino ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale; basti pensare alle gloriose aziende piemontesi che sul vino hanno fondato gran parte del loro successo (dalla Martini, alla Cinzano, alla Gancia per citare le piu’ note) o alla maschera regionale Gianduja e a come viene solitamente rappresentata, rubizza, allegrotta e con l’immancabile botticella di vino al collo (o tra le mani), o ancora al grande re Vittorio Emanuele II che, alimentandosi di regale nettare d’uva, riusci’ a trovare l’energia per portare a termine imprese grandiose senza trascurare di seminare figli per le italiche contrade. Per gente non avvezza e non molto portata alla comunicazione il vino e’ stato un puntuale e potente aiuto a stimolare la loquacita’ e il divertimento.
Tempo di ricordi
Mi viene dunque spontaneo lasciare spazio a qualche ricordo personale, poiche’ il vino, molto piu’ modestamente, e’ stato una presenza costante anche nella vita e nei momenti importanti della mia famiglia. Ecco allora comparire davanti ai miei occhi di fanciullo le spedizioni nell’astigiano organizzate dagli adulti per rifornirsi di capaci damigiane di barbera da pasto, e di qualche botticella di vini piu’ preziosi per le migliori occasioni. Partivano di sabato, nel mese di marzo – e tornavano la sera stanchi, con i recipienti da stivare faticosamente in cantina, eppure allegri ed eccitati, potenza del vino! Poi a certi intervalli stabiliti si andava a imbottigliare e li’ si facevano discorsi di lune, di temperature, di vini bianchi e di vini rossi che ricordo vagamente insieme al penetrante aroma che si spandeva per la cantina e ti penetrava fin nel cervello. e’ certo, in ogni caso, che da quel momento il vino diventava una presenza fissa dei nostri pasti e delle nostre feste. Ai bambini un dito di spumante, ovviamente dolce, ai grandi qualche bel bicchiere di dolcetto o grignolino o di qualche altro profumato vino rosso, per i brindisi il bianco secco. E guarda caso, come d’incanto fiorivano le barzellette, si dimenticavano i risentimenti, si prendeva a cantare e perfino gli stonati riuscivano miracolosamente a restare nel coro.
E di malinconia
I miei nonni poi avevano con il vino un rapporto affettivo assai stretto. Rammento il nonno paterno rispondere, a chi lo interrogava sui lati edonistici della vita, che lui “un bicchiere di vino ed un piatto di minestra era tutto cio’ che desiderava” e spesso li fondeva in un unico cibo incurante delle riprovazioni dei commensali. Era un solido e saggio contadino, forgiato da una vita di fatiche ed il vino aveva rappresentato per lui uno dei pochi punti fermi, tanto che si mormorava che ne avesse messo, di nascosto, qualche goccia ogni tanto anche nei biberon dei suoi quattro figli; per temprarli naturalmente! Il nonno materno, invece, dopo alcuni bicchieri di rosso si inteneriva e incominciava a narrarci gli avvenimenti della sua gioventu’, finendo immancabilmente per parlarci della grande guerra con le sue miserie, i suoi drammi, i suoi morti e le battaglie alle quali era miracolosamente scampato. Mi svelava l’altro aspetto del potere comunicativo del vino, la sua parte malinconica, introspettiva, quella che induce a ricercare comprensione e conforto negli interlocutori. A questo punto, scusatemi, ma mi sto commuovendo per cui ho bisogno di farmi un bicchierino, rosso naturalmente, e cosi’ la facciamo anche finita con le rimembranze di famiglia. Bene, ora che mi sono rinfrancato, vorrei portarvi a ragionare con me del grande ruolo che questo nettare divino ha rivestito nella storia dell’uomo; quanti eventi, quante scoperte ha determinato, condizionato, stimolato e, scandalosamente, nella maggior parte dei casi i libri storici, i nostri “testi sacri” non ne fanno menzione, ne occultano deliberatamente le informazioni.
Vino e ispirazioni
Pensate a esempio a Galileo ed alla sua famosissima frase “Eppur si muove!”: ebbene sembra che egli la pronuncio’ dopo un’abbondante libagione che gli schiari’ prontamente il cervello; ecco perche’ la chiesa, papa in testa, ne fu profondamente offesa e scandalizzata! Altro che vilipendio dei testi sacri, il buon Galileo era alticcio quando scopri’ il moto della terra! Una cosa vergognosa.
Oppure, per giocare in casa, parliamo di quel geniale architetto dell’Antonelli; fu il vino a scatenargli la creativita’ che lo porto’ a progettare la nostra cara Mole, il vino gli spiego’ come andava costruita una sinagoga ebraica, secondo quanto gli era stato chiesto dai committenti. Nella zona vi era scarsa cultura di tali costruzioni e l’Antonelli si scervello’ per mesi e mesi per cercare di capire come doveva essere una sinagoga, finche’ il vino lo illumino’: una sinagoga doveva avere una “forma informe”, doveva essere un solido ambiguo, appuntito, e soprattutto non doveva assomigliare a null’altro di esistente. I committenti, dopo le perplessita’ iniziali, furono sconvolti dall’entusiasmo tanto da dimenticare persino di completarne il pagamento. Alessandro Antonelli aveva individuato le nuove frontiere dell’architettura di stampo religioso e naturalmente la Mole non divenne mai una vera sinagoga! Passando alla letteratura, abbiamo ulteriori straordinari esempi. Ne volete uno? Il sommo poeta Carducci. Le cronache (ma non i testi di storia della letteratura si badi bene) narrano che egli scriveva le sue poesie con il fiasco accanto, pronto a superare i momenti critici ricaricando di succo d’uva e di estro il suo intelletto. Fu il vino infatti a fargli scrivere quel superbo passo di uno dei suoi capolavori, Davanti a San Guido, che recita piu’ o meno cosi’ (cito a memoria) “…. Se voi s apeste, via non fo per dire, ma oggi sono una celebrita’, so legger di greco e di latino scrivo, scrivo e molte altre virtu’ non son piu’ cipressetti un biricchino e sassi in specie non ne tiro piu’…”. Capite l’origine della grande modestia del Nobel? e poi, grazie al fiasco di rosso il vate riusciva persino a parlare con i cipressi! cosa impossibile per i comuni mortali e se non ci credete, provateci. Del resto lui stesso ci confessa velatamente la sua passione, nonche’ la vera fonte del suo genio allorche’ in San Martino ci delizia con (cito sempre a memoria) “… ma per le vie del borgo tra il ribollir dei tini va l’aspro odor dei vini l’anime a rallegrar….”. Non v’e’ dubbio che il vermiglio liquido sia stato il vero motore dell’ispirazione carducciana.
Soffrire di meno
A questo punto mi viene spontanea una riflessione: se l’altro nostro genio ottocentesco che risponde al nome di Alessandro Manzoni avesse risciacquato i panni nel vino anziche’ nell’Arno, forse quella pizza tremenda dei “Promessi Sposi” sarebbe durata 300 pagine invece di oltre 600; Renzo e Lucia si sarebbero sposati prima, con meno sofferenze loro e nostre! Renzo si sarebbe magari trasformato da giovanotto ingenuo ed un po’ sfigato in un baldo pretendente che non si lasciava sfuggire l’occasione di dare ogni tanto una palpatina premonitrice alle grazie della sua futura moglie. Lucia sarebbe altresi’ passata da donzella timidetta ed un po’ bigottina a una florida contadinella dall’aria sveglia e le forme procaci. Don Abbondio stesso, grazie al benevolo influsso del vino, sarebbe diventato un vero pastore del Signore, audace ed illuminato e li avrebbe sposati almeno una decina di capitoli prima. Del resto chi conosce le cose della Chiesa cattolica sa che buoni comunicatori siano sempre stati frati e sacerdoti, che cosa mi dite infatti dei Gesuiti, dei Salesiani, dei Domenicani? tanto per portare qualche esempio. Tutti grandi comunicatori e, diciamolo, buoni bevitori. Io stesso posso testimoniare della passione sacerdotale per il vin santo. Infatti ricordo, al culmine della mia carriera di chierichetto, gli inviti dell’officiante della S. Messa a mescere vino in abbondanza dall’ampolla di vetro. “Ancora” mi diceva “Mettine ancora” e l’ampolla, al termine della celebrazione finiva sempre desolatamente vuota. Quel prete, don Corrado, snocciolava delle omelie eccellenti, magari nella messa della sera si ripeteva e si confondeva un pochino, ma erano dettagli.
Il bello della vita
Tutto considerato mi mettono tristezza quelli che alla fatidica domanda “Ci facciamo un goccetto?” ti guardano con aria di superiorita’ e ti rispondono con disgusto malcelato “No grazie, sono astemio”. Che pena, amici, quelli non conoscono i sapori della vita, non ne comprendono i valori, si mantengono in superficie senza vere passioni, senza partecipare, insomma non sanno comunicare. In conclusione ritengo di avere portato solidi e concreti argomenti a sostegno dell’importanza del vino nella comunicazione e chi non fosse d’accordo o volesse approfondirli non ha che da dirmelo, davanti a un bel bicchiere di dolcetto (lo confesso, il mio preferito) ne potremmo riparlare e, come disse nella celebre pellicola “La cena delle beffe” il buon Amedeo Nazzari, “Chi non beve con me peste lo colga!”
Il rito dell’Eucarestia racchiude un grande don la “comunicazione perfetta” dell’uomo con Dio e con tutti i fratelli
Esiste senz’altro la possibilita’ di interpretare il rapporto tra vino e comunicazione facendo riferimento alla Celebrazione Eucaristica. Una prima riflessione, ovvia ma sicuramente prioritaria, e’ che la Santa Messa, per istituzione divina, e’ il segno ed il sacramento della Comunione. In essa si esprime concretamente la presenza di Gesu’ sotto forma di pane e di vino. In tale contesto, la “comunione” certamente indica la “comunicazione perfetta” del Creatore con la sua creatura, alla quale Egli si dona nel modo piu’ totale e definitivo, divenendo parte di essa anche in modo materiale, oltre che spirituale.
Il vino come simbolo divino
“Il calice della benedizione non e’ forse comunione al sangue di Cristo?”
Scrive San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 10,16).
Ebbene, per ogni cristiano che accetti questa verita’ di fede, il vino diviene simbolo della nuova Era Messianica, cominciata con la venuta del Figlio di Dio tra noi. Dio ha scelto di farsi Uomo e, dopo la sua morte, di lasciare – nel Sacramento dell’Eucarestia – la memoria eterna della Nuova Alleanza e di significare che, come Egli e’ venuto tra noi, anche l’uomo deve indirizzarsi a Dio e comunicare con Lui. Evidentemente, la Comunione allo stesso calice che si attua durante il banchetto Eucaristico, ha anche lo scopo di mettere in comunicazione tutti coloro che vi prendono parte, annullando le divisioni e creando progressivamente l’unita’. Poiche’ pero’ non e’ possibile che l’uomo raggiunga immediatamente la statura di Cristo, ogni gesto di Comunione e’ un crescere progressivo, un passo ulteriore verso la meta che deve realizzarsi alla fine dei tempi: la “comunicazione perfetta” anche tra le creature umane che, pur distinte come tanti chicchi di uva, sono state tuttavia macerate per diventare lo stesso vino.
“Vino buono” e “comunicazione perfetta”
In attesa di realizzare questo fine, l’uomo trae forza dal Sacramento dell’Eucarestia, manifestando concretamente nella quotidianita’, in tutti i possibili gesti di alleanza fondati sull’amore, il desiderio di comunicare la propria gioia. Nel celebre episodio delle nozze di Cana (Gv 2, 1-11), infatti, la Sacra Scrittura indica nel “vino buono” il simbolo della comunicazione gioiosa tra gli invitati, tant’e’ che la sua mancanza – come e’ noto – compromette la festa. Ma chiunque sia nutrito del “vino buono” che e’ Cristo, sara’ capace di trovare mille modi per essere un canale di gioia: dimentichera’ l’aridita’ di cuore, la meschinita’, l’egoismo, non terra’ nulla per se’, perche’ proprio in se’ avra’ la positivita’ e la voglia di operare solo in modo costruttivo.
L’alcool puo’ essere una efficacissima macchina del tempo. E i segreti del passato gettano un’ombra sul futuro di tutti noi
Soffriva di etilismo mnemonic una malattia rarissima, forse unica, diagnosticatagli dal medico al termine di una lunga serie di esami. L’aveva contratta a causa di un battere che aumentava le capacita’ della memoria in seguito all’assunzione di alcool: in breve, mentre gli altri bevono per dimenticare lui beveva per “ricordare”. Se ne era accorto una sera al bar, tentando di affogare nel vino i dispiaceri dell’ennesimo bisticcio con la moglie. Da bravo astemio aveva sempre evitato di ricorrere a Bacco, e proprio per questo se ne attendeva un oblio rapido e totale. Un bicchiere al massimo. Tuttavia dalla prima sorsata il ricordo della sfuriata casalinga era emerso persino potenziato. Quelle grida dal cui ossessivo rimbombo il barbera avrebbe dovuto fare da scudo gli si erano ripresentate alle orecchie bell’e intatte, in sadica e puntuale differita. Le cose erano andate poi peggio al tentativo seguente, allorche’ la scena della lite gli era ricomparsa addirittura davanti agli occhi, come su uno schermo tridimensionale. Il dottore lo prego’ di non farci caso. Il morbo era fastidioso ma non grave, e magari nemmeno incurabile. Anzi, poteva pure essere giocato in positiv dava infatti una buona ragione per contenere certi sfoghi e limitare il proprio vissuto a esperienze gradevoli o quantomeno neutre.
Il lato positivo
Eppure, avvezzo a fare di necessita’ virtu’, il malcapitato ebbe un’idea migliore. Piu’ che da sprone per un futuro che non lo interessava, quella malattia rappresentava una grande risorsa per rivivere i migliori momenti del passato. Se poche gocce erano bastate a portarlo indietro di un paio d’ore, che cosa avrebbe potuto fare un intero bicchiere? O una bottiglia? Tutto quello che ci voleva erano carta, penna e un ripassino di aritmetica, lo stretto indispensabile a imbastire qualche proporzione e calcolare i decilitri che lo avrebbero catapultato ai giorni felici, quelli della laurea, della promozione a dirigente, della nascita dei figli. Perche’ no, anche del matrimonio. Le quantita’ opportune si aggiravano tutte sul mezzo litro, quasi che un effetto-spugna (era il caso di dirlo) avesse compresso gli anni fortunati in un unico arco temporale. Comincio’ a bere con molta emozione e un po’ di timore, non fosse altro per la scarsa familiarita’ che aveva con il vino e con quella sua esclusiva conseguenza. Ma se la matematica non era un’opinione, per evitare brutte sorprese sarebbe stato sufficiente non alzare il gomito. E infatti i primi tuffi nel passato furono magnifici. Con 45 centilitri si ritrovo’ in tight accanto a una giovane e sorridente moglie in abito bianco; per rivivere la nascita del primogenito gliene bastarono 42, mentre dovette salire a 47 per tornare nell’ufficio del presidente e vedersi consegnare la lettera di promozione. A 51 fu dottore con lode e a 53 riprovo’ l’ebbrezza della prima notte d’amore.
All’indietro nella propria vita
La situazione sembrava riservargli solo divertimento. Il vino, filtrato da quello strano etilismo, si era rivelato una macchina del tempo di grande efficacia e ancor maggiore sicurezza: gli effetti corrispondevano ai dosaggi con precisione geometrica e si dissolvevano nel nulla con equivalente puntualita’. Per dirla da manager, insomma, era impossibile pensare a un miglior rapporto qualita’-prezzo. Ma il giorno in cui torno’ all’estatica quota 53 accadde l’inimmaginabile. Trascinato nel vortice del primo orgasmo, il nostro amico non resistette alla tentazione di continuare a bere. Si attacco’ alla bottiglia fino a svuotarla. E l’esito fu terrificante. Dalle nebbie di un passato resosi all’improvviso indefinibile si materializzo’ una brulla campagna popolata da contadini tristi e malvestiti, sull’orizzonte di pochi aratri vecchio stampo trainati dalla classica coppia di buoi. Una scena che, pur non avendo nulla da spartire con la sua vita, lo vedeva protagonista a pieno titolo con tanto di vanga e abbigliamento stile Pellizza da Volpedo. Dove era finito? O meglio, quando era finito?
Per effettuare le sue verifiche dovete aspettare lunghe ore, ostacolato da un panorama avido di calendari ma favorito da una sbronza che non voleva andarsene. Cammino’ a lungo e incontro’ altra gente, tutta vestita uguale, con camicie e pantaloni sdruciti o gonne lunghe sul genere delle bisnonne. Le strade erano sterrate e polverose, percorse da militari con strane divise rosse e blu e inquietanti baffoni passati di moda da un secolo. Qua e la’ un cavallo, una diligenza, una carrozza. Niente automobili.
Dove sono?
All’imbrunire arrivo’ in un centro abitato protetto da una cinta muraria non custodita. Varcata la porta si ritrovo’ in una cittadella oscura e maleodorante, solcata da piccole stradine in selciato e illuminata a stento da qualche lampada a olio all’altezza dei portoni. Fatte poche altre centinaia di metri vide una locanda e vi entro’. All’interno, tra silenziosi avventori appoggiati a un bancone in legno e pochi tavoli senza sedie noto’ un giornale. Cioe’, un foglio a due colonne stampato da ambo i lati con un breve elenco di cose che sembravano notizie. In alto a destra, sotto il titolo, una data. 15 gennajo 1823.
Riavutosi come da un brutto sogno e smaltita la memorabile sbornia, il nostro amico decise di non fermarsi. Al di la’ dei dubbi sull’effettiva appartenenza di quelle immagini a una sua precedente vita, la prospettiva di visitare i secoli passati lo intrigo’ come nessun’altra. Del resto era impossibile dargli torto. Con un occhio alla solita matematica per stabilire le quantita’ di vino e l’altro ai libri del liceo per determinare le date, il fluire dei millenni gli sarebbe stato a portata di mano come il cinema sotto casa. E lui avrebbe assistito dal vivo ai grandi eventi di cui gli altri uomini, gli uomini normali, sono condannati a sentire soltanto parlare. Mica male per un povero malato cui il medico aveva suggerito di non bere.
Sempre piu’ indietro
Fece quindi il salto di qualita’ e si diede al whisky, che con un maggior tasso alcolico gli avrebbe garantito la potenza necessaria. 7 centilitri del prezioso distillato furono sufficienti per assistere alle cannonate di Bava Beccaris, 14 per applaudire Napoleone a Milano, 19 per tagliare la testa a Danton, e una piccola aggiunta per sedersi accanto a George Washington nel piu’ mitico dei 4 luglio. La dose per conoscere San Carlo Borromeo fu fissata a 32, a 46 quella per chiacchierare con Martin Lutero, e a oltre 50 quella per sbarcare con Colombo in America. E ancora, a ritroso, le conquiste turche, le crociate, le celebrazioni dell’anno Mille, la nascita del Sacro Romano Impero. Tutt’intorno, dal medioevo al rinascimento, un oceano di arte e folclore. Scorrazzare per i secoli, inutile dirlo, lo entusiasmava. Non gli costava sforzo, perche’ l’alcool oscurava subito i sensi risparmiandogli il bruciore del whisky, e nemmeno comportava pericoli, perche’ quella sorta di eterotrasporto gli garantiva l’immunita’ contro gli eventuali cataclismi del passato. I ritorni a casa, poi, erano puntuali come il big ben, dalle sei alle sette ore dopo la prima sorsata, a seconda dei decilitri.
L’unico neo era rappresentato da un’atavica intolleranza al superalcool, che gli impediva di andare oltre Carlo Magn per vedere l’incoronazione dell’anno 800 doveva trangugiarsi un’intera bottiglia di distillato, limite davvero invalicabile per chi, almeno a parole, continuava a professarsi astemio. Pure il fegato ci metteva del suo, mostrando con dolorosa chiarezza di rimpiangere i bei tempi dell’acqua minerale. Comunque, prima di alzare bandiera bianca, il nostro amico decise che un giretto all’epoca romana andava fatt un po’ per soddisfare una curiosita’ ormai legittima, un po’ per rifarsi da quel degrado medievale di cui per molte sere era stato forzato spettatore.
Padrone del passato
Passo’ dunque dal whisky a una micidiale grappa a 50 gradi. Si fece coraggio e, promettendo a se stesso che quella sarebbe stata la sua ultima trasferta, inizio’ a bere senza ne’ ritegno ne’ calcoli: dove arrivava arrivava, l’importante era toccare con mano i lustri dell’antichita’. E li tocco’, questi lustri. Eccome. L’imbuto del passato, che di sorsata in sorsata ingurgitava gli eventi come un’enorme belva cronofaga, sfocio’ su un’epoca sorprendentemente moderna e tecnologica. Nulla a che spartire con la Roma dei libri di storia: niente drappeggi, legionari o fori imperiali, ma giacche, cravatte, manager in berlina e grattacieli svettanti. Sulle prime lo stranito viaggiatore credette di essere rimasto al ventesimo secolo. La giornata, fulgida di sole, presentava una futuristica sfilata di carri armati e mezzi corazzati applauditi da un popolo festante e circondato da molti segni di contemporaneita’: sui tetti si sprecavano le antenne paraboliche, le carreggiate erano infarcite di segnali stradali, i cieli erano percorsi da pattuglie acrobatiche. I militari passavano attraverso un enorme arco in bronzo fuso con la scritta CONSTANTINO OPTIMO MAXIMO SENATVS POPVLVSQVE ROMANVS DICAVERVNT. Dietro di loro, un distinto signore in alta uniforme svettava da una capote e ringraziava la folla osannante. Doveva essere proprio lui, Costantino. L’imperator.
Qualcosa non va
Tuttavia, per quanto vi somigliasse, quella non poteva essere la nostra epoca. Nell’aria c’era qualcosa di strano. L’eco delle grida, per esempio, pronunciate in una lingua inedita e misteriosa: indizio remoto, ma sufficiente a dimostrare il distacco temporale. Neppure le costruzioni convincevano, con forme appuntite e materiali cangianti sconosciuti persino a noi. Al nostro amico, ormai in preda al panico, ancora una volta fu un giornale a dare la prova decisiva: in un’edicola (c’era anche quella, sissignori) scorse la data dell’ultimo numero di Hodie Roma, sparato a tutta vetrina da un giornalaio in esaltazione: Kalendis Februariis CCCXXX A.D.
Era il 330. L’anno di Costantinopoli.
Perche’ tutto cio’? Che cosa aveva reso i romani cosi’ grandi? Piu’ ancora, come poteva essersi dissolta una civilta’ tanto potente e matura? E infine, quale demonio aveva guidato il colossale inganno storiografico che per duemila anni aveva dipinto gli antichi in toga e calzari? Rinsavito, un tremendo mal di testa a giganteggiare sopra i pensieri, il malcapitato viaggiatore rimugino’ per lunghe ore il segreto. Ma per quanto tentasse di trovare una spiegazione razionale, non pote’ far altro che rassegnarsi all’incredibile scoperta. E programmare una nuova partenza: questa volta per la fascia di decenni tra l’epoca classica e il medioevo, nella quale la gloria di Roma era crollata e la millenaria menzogna aveva preso il via.
Una fine ingloriosa
Per raggiungerla occorsero 74 centilitri di grappa. Un salasso da cui il nostro ex astemio stento’ a riprendersi. Rimase per mezz’ora steso a terra come il peggiore degli ubriaconi, incapace di intendere e di volere, nel bel mezzo della stessa citta’ che due secoli prima pullulava di popolo e che invece adesso marciva nell’abbandono. Quando i sensi lo riagguantarono si accorse che il panorama era inalterat non una crepa sui muri, ne’ segni di guerre, epidemie, siccita’. Tutto perfetto, pulito, funzionante. Ma deserto. Aveva appena iniziato a camminare quando un enorme boato lo sorprese all’orizzonte. Il grattacielo piu’ alto era stato fatto saltare, e ora gli si accartocciava davanti agli occhi in una nuvola polverosa. D’istinto si mise a correre in sua direzione, sicuro che da quelle parti ci fosse almeno qualcuno con cui parlare. E infatti, giunto in prossimita’ delle macerie trovo’ quattro individui intenti a scollegare una specie di detonatore.
“Ehi!”, urlo’.
Lo guardarono i due piu’ vicini. “Quid?”,
disse uno. Quid. Il tizio parlava in latino. Vivaddio, almeno in quello i conti tornavano.
“Ego sum amicus”, rispose attingendo alle reminiscenze liceali.
“Quid facitis, homines?”.
“Lascia stare le lingue ufficiali”, intervenne l’altro.
“Chi sei?”. Il viaggiatore barcollo’ per la sorpresa.
Italiano purissimo, accidenti a loro. Nel 550 dopo Cristo!
“Sono…”, stento’. Gia’, chi era? Un italiano? Ovvio, ma pure quei due lo erano. Uno straniero? Beh… in un certo senso si’, anche se l’accento lo tradiva. Tuttavia non poteva bluffare: il mondo, quegli scafati dovevano conoscerlo anche meglio di lui.
“…Un forestiero”, sibilo’ alla fine. Il primo che aveva parlato gli si fece incontro.
“Da dove vieni?”. “Da lontano”, disse guardingo.
“Da molto lontano. E vorrei sapere che cosa sta accadendo”.
L’uomo lo guardo’ storto. “Come?”. “Ti ho chiesto che cosa e’ successo”, ripete’.
“Come, che cos’e’ successo?”.
Che cosa e’ successo?
Il nostro amico indico’ tutt’intorno. “Qui…”, mormoro’. “Non c’e’ piu’ nessuno”.
“Certo”, confermo’ l’individuo. “Chi ti aspettavi di trovare?”.
“Non so…”, balbetto’ lui, agitato. “Non so nulla, ti ho detto… vengo da lontano e non ho seguito i fatti”.
“Quali fatti?”.
“Ah!”, si spazienti’. “Dai, rispondimi, che e’ capitato?”.
“Ma… non li leggi, i giornali?”.
“Sssi’, cioe’ no… si’ e no…, perche’?”.
“Perche’ li’ c’e’ scritto tutto”.
“Immagino. Ma non li ho letti”.
“E allora? Non sai che ci siamo estinti?”. Estinti. Non si era trattato di un cataclisma, ma di una fine graduale e spontanea, frutto di chissa’ quale dissesto fisiologico.
“Questo…”, degluti’, “questo lo so. Ma per quale ragione?”.
“Perche’ non nascevano piu’ bambini”, svelo’ il tizio. “Le donne non volevano piu’ farne e gli uomini erano tutti inibiti. Tu a letto come te la cavavi?”.
Ritorno al presente
Il nostro amico non contenne un brivido di orrore. Rimase fermo in piedi, imbambolato come uno spaventapasseri, a palleggiarsi quelle spaventose parole da un orecchio all’altro quasi a verificarne la credibilita’. Non pote’ rispondere se non con un timido ondeggiare del capo in su e in giu’.
“Ci riuscivi ancora?”, insiste’ l’altro.
“Cr… credo… credo di si'”.
“E trovavi donne che ci stavano?”. Occhi sempre piu’ sgranati, respiro sempre piu’ pesante, il viaggiatore millenario fece istintivamente un passo indietro, come se quel cosmico fantasma di impotenza rischiasse di coinvolgere anche lui.
“…Sssi'”, sussurro’.
“Beh…”, sorrise l’interlocutore, “allora dimmi da dove vieni, che ti seguo”.
“Ascolta”, riprese schiarendosi la voce, “che cosa state facendo adesso?”. L’uomo sospiro’ desolato.
“Distruggiamo tutto. Nessuno vuole che questo mondo resti in piedi. Non lo merita”.
“Distruggete… tutto?”.
“Si’. Fino a eliminare ogni traccia della civilta’ che ci ha condotti a questo baratro”. Nuovo passo indietro.
“E… dopo?”. L’altro fece spallucce
“Che cosa mi importa? Ho cinquant’anni. Me ne resteranno al massimo altri quaranta da passare tra le macerie. Insieme agli altri mi inventero’ un modo per far credere ai posteri che Roma fosse diversa”.
“Di… versa?”.
“Si’. Non so come, ma diversa. Che almeno in futuro ci sia un buon modello da imitare. Vuoi darci una mano?”.
Ritorno al presente
Il nostro amico non rispose. Gli volto’ le spalle di scatto e riprese a correre piu’ forte che pote’. Percorse la strada a ritroso guardandosi in giro con insistenza, senza mai perdere la speranza di incontrare qualcuno che gli desse una piu’ incoraggiante versione della verita’. Si ripeteva ostinatamente di essersi inventato tutto, di aver prestato fede a un impostore, di essere finito in un’allucinazione. E continuo’ a ripeterselo anche quando, dopo molte ore a perdifiato nel nulla, fu risucchiato dal tempo, viaggio’ tra le stelle e torno’ nel mondo d’oggi a braccia aperte e cuore libero.
Noe’ il coltivatore inizio’ a piantare la vite. Con questa citazione della Genesi abbiamo voluto aprire, in seconda di copertina, il numero sul vino. In effetti, Noe’, ci dicono i cronisti biblici, fu il primo coltivatore diretto che l’umanita’ abbia mai avuto. Arenatasi la sua Arca nella regione del monte Ararat, trovo’ la terra migliore per far attecchire le sue pianticelle. Ma al di la’ della leggenda esistono testimonianze che risalgono a quattro, cinque millenni prima di Cristo che dimostrano come non solo si producesse vino in Mesopotamia, in Egitto, in Persia, in Russia, in India e in Cina, ma questa bevanda venisse tenuta in grande onore e grande considerazione. Proseguendo nel tempo i greci furono grandi cultori di vin non esiste divinita’ che abbia goduto di un culto piu’ popolare e profondo di Dioniso. Un dio vendicativo, un po’ sadico, che affascina gli uomini ma col tempo li distrugge, un dio che crea allegria e contemporaneamente follia. Una figura ben diversa dal Bacco dei romani, dio pacioccone e ubriacone. e’ evidente che nella Grecia antica spiccava con forza questo aspetto di ebbrezza e di perdita della ragione che legava Dioniso a riti orgiastici e maledetti. Ma il vino donava anche saggezza e soprattutto… rendeva piu’ facile la comunicazione.
Il simposio
La parola “simposio” che ancor oggi noi usiamo per indicare una riunione di scienziati, un congresso medico-scientifico in cui si discetta di argomenti altissimi, deriva da sun-potein che significa bere insieme. Il simposio non era una semplice riunione conviviale, ma era l’assemblea degli anziani che avveniva davanti a crateri di vino che “rischiarava la mente” dei presenti i quali dibattevano di argomenti politico-filosofico-morali. Omero, il piu’ grande comunicatore dell’antichita’, fa spesso riferimento al vin “Il rosso licore infondi nelle tazze – recalo a tutti onde al grande Giove libiamo” e perfino Socrate dice: “Amici miei avete la mia approvazione, il vino impregna l’anima e addormenta i nostri crucci, destando i buoni sentimenti”. I greci, quindi, furono grandi cultori del vino. Le voci abitualmente usate da chi vive in mezzo al vino – enologo, enologia, enofilo – derivano dalla lingua greca. I forestieri del mondo ellenistico chiamavano l’Italia con il nome Enotria, che significa, appunto, patria del vino. Nelle epoche successive, infatti, la vite risali’ lentamente la nostra penisola partendo dalla Sicilia, Calabria, Campania e su verso il nord, Etruria (Toscana), Piemonte, Liguria, Veneto, Friuli, Trentino e Alto Adige. Durante le epoche repubblicana e imperiale i romani diffusero moltissimo la coltura della vite, in Italia ma anche nelle loro province. In Gallia, in Provenza, e nei pressi di Vienne, in quella zona che attualmente e’ chiamata C™te du Rh™ne. Ma anche in Spagna, nelle zone di Tarragona e Valenza. Polibio, Catullo, Ovidio e Virgilio sono coloro che testimoniano la vita agreste, l’amore della terra, la passione per gli alberi e in particolare per la vite e, naturalmente, per il vino.
“Io sono la vite”
E nacque Gesu’ Cristo, altro grandissimo comunicatore, esperto in metafore e aneddoti. “Io sono la vite e il padre mio e’ il vignaiolo”. E come non pensare alle nozze di Cana, dove “esaurito che fu il vino, Gesu’ trasforma l’acqua in vino affinche’ la festa continui” e, all’ultima cena, con quel messaggio spirituale che si perpetua da duemila anni nel rito della messa, “diede loro il calice dicend bevetene tutti, questo e’ il calice della nuova alleanza”. Il vino come strumento di pace fra gli uomini! Prima e dopo la nascita di Cristo, l’Italia domino’ la scena enologica mondiale. e’ pero’ curioso notare come i vini piu’ famosi dell’antichita’ romana non siano giunti, nella loro versione originaria, fino ai tempi nostri. I vigneti del Falerno furono completamente distrutti, il Mamertino, il Cecubo, l’Ansonico, il Massico e tanti altri vini celebri andarono via via scomparendo. La storia del vino italiano segue, nel medioevo, la storia politica e sociale del nostro paese. La produzione del vino di qualita’ divenne solo un ricordo. Dal medioevo si hanno pochissime notizie sui vini prodotti in Italia e, nonostante le molte citazioni di Dante Alighieri, Galileo Galilei, Cecco Angiolieri, fino al rinascimento non si ha nella storia del vino italiano la percezione di qualita’. Solo piu’ tardi, il vino nobile di Montepulciano, la vernaccia di San Gimignano, il bianco di Orvieto, i vini dei castelli romani, divennero nuovamente famosi. Divertente e’ la leggenda dell’Est, Est, Est di Montefiascone. Un chierico fiammingo, tale Johann Defuk, al seguito dell’imperatore tedesco, si faceva precedere da un suo servo di un giorno di cammino. Il servo doveva segnare con la parola “est” (c’e’) quelle osterie nelle quali trovava un vino particolarmente buono. Giunto a Montefiascone trovo’ un vino talmente buono da meritare una tripla est. Est, Est, Est. Defuk giunse nel Paese, assaggio’ il vino e decise di non muoversi mai piu’ da li’. Resto’ infatti a Montefiascone fino alla morte.
La storia recente
Nel 1709 una gelata spaventosa cancello’ letteralmente la viticoltura in gran parte dell’Europa. La Francia, la Germania e l’Italia settentrionale videro le loro viti completamente distrutte, solo le aree piu’ mediterranee si salvarono. Questo fece reimpiantare tutti i vitigni e sconvolse completamente la produzione viticola, cosa che riaccadra’ tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento a causa dell’invasione della filossera. Sembra incredibile ma l’Italia e’ un paese in cui solo da pochi anni si producono vini di qualita’, del resto basti pensare che la prima annata di produzione del Brunello di Montalcino, presso la fattoria Barbi Colombini, e’ del 1888 e la commercializzazione di questo vino fatta in modo sistematico e’ iniziata solo nel 1964. L’arrivo della filossera, un piccolo insetto che attacca le radici della vite per succhiarne la linfa, stravolse nuovamente la produzione dei vini italiani. Inizio’, infatti, l’importazione di vitigni francesi, innestati su vite americana, immune a questo insetto. Ecco perche’ in Veneto, in Friuli e in Trentino, oggi i vini si chiamato Merlot, Cabernet, Pinot, Chardonnay, Sauvignon. Ma prima di chiudere questa breve e incompleta storia bisogna parlare del Barolo, famoso sulle mense dei re fin dal ‘600. Maria Cristina di Savoia disse agli abitanti di Alba nel 1640 che essa amava la citta’ “ma desiderava le si mandasse anche quel buon vino che produceva”. Alba, famosa per i suoi tartufi bianchi, puo’ anche definirsi capitale dei grandi vini piemontesi. Barolo e’ un villaggio a otto chilometri da Alba sulle dolci colline delle Langhe. Giulio Cesare nei suoi commentari della guerra gallica aveva speso parole d’ammirazione per i vini di La Morra che e’ a due passi da Serralunga d’Alba. Nel ‘500 Francesco I, re di Francia, di quel buon vino aveva le cantine piene. Anche il vitigno e’ di nobile tradizione, nel trattato dell’agricoltura di Pier de’ Crescenzi si ricorda il “nebiolus” che fa quasi tenerezza poiche’ “le sue uve forniscono acini piuttosto piccoli e fitti di color turchino come il cielo delle Langhe all’imbrunire”. Nei tenimenti di Fontanafredda, sempre nei dintorni di Alba, re Vittorio Emanuele II aveva una palazzina di caccia riservata alla sua abilissima arte venatoria e alla non meno abile arte amatoria. Vi passava il week-end con la “bela Rosin”, una bella donna di origini campagnole, divenuta contessa di Mirafiori e poi sposa morganatica del re. Cosa si puo’ ottenere con il vino! Ma colui il quale diede una svolta alla produzione del Barolo fu Camillo Benso conte di Cavour. Cavour non amava i vini rossi e dolci che si producevano nelle Langhe. Decise di piantare nuovi vigneti di pinot noir e risistemare quelli di nebiolo per fare un rosso di stile francese e chiamo’ per questo dalla Francia l’enotecnico Oudart. Il francese inizio’ anche a lavorare per la marchesa Falletti, nelle tenute di Barolo, Serralunga e La Morra e dopo qualche anno di sperimentazione il Barolo aveva assunto quelle caratteristiche che in gran parte conserva ancora oggi. Un successo travolgente che, dai tempi di Cavour e Vittorio Emanuele II fino a oggi, non ha conosciuto soste.
Vino e’ comunicazione
Vino e comunicazione, dunque? Mi verrebbe voglia di concludere con l’esclamazione “vino e’ comunicazione”. Abbiamo visto come questo elemento si sia intrecciato con la storia del nostro Paese e con la quotidianita’. Un alimento divenuto, negli anni, sinonimo di oblio, di ebbrezza, di divertimento, di gioia, di riposo e, pian piano, abbandonando la quantita’ per la qualita’, anche di buon vivere e di cultura, ma sempre di calore e di rapporti umani. Un facilitatore per le relazioni. Il vino come strumento di comunicazione, anche se forse i grandi professionisti troveranno questa mia dichiarazione un po’ ardita. E vorrei finire citando Dario Fo, premio Nobel per la letteratura che nel Mistero Buffo fa dire al personaggio che narra le nozze di Cana: “Mi son sicuro che, se el deo padre in la persona invece de impararghelo al Noe’, tanto tempo dopo, sto truco meravigioso de schisciare l’uga, de trare fora el vino, ol ghe l’avesse insegnat subito, fin dal prinzipio all’Adamo, subito, prima della Eva, subito!… non saresmo in sto mondo malarbeto, saresmo tuti in paradiso. Salut!”
I dati storici sono tratti da: Marinatto-Zingales, Saper bere, Fratelli Fabbri Editore
Cernilli-Sabellico, Il vino, Gambero Rosso Editore
Proposte per una riscrittura della storia e del ruolo culturale del vino.
Con un requisito essenziale: la comunicazione. Parola di sommelier
“Tanto meno il vino e’ piacevole, tanto piu’ e’ necessario spiegarlo.
Se il bicchiere non e’ a punto, se il vino ivi contenuto non e’ capace di procurare
piacevolezza al contatto sensoriale, allora per recare pregio
al prodotto occorre decantare le sue doti extra-sensoriali:
la fama, il prestigio, l’annata, il terreno, quant’altre astratte virtu’.
Se il vino non e’ buono, il solone, lo sciamano, ha ragion d’essere.
E’ lui solo in grado di capire quali sono i Grandi Vini,
non qualsiasi individuo.
Gli altri non capiscono nulla, e devono stare zitti ed ascoltare”.
Luca Maroni
Il vino e la vite hanno rivestito tanta importanza per gli Ebrei da essere citati piu’ di 650 volte nella Bibbia. Dall’Antico Testamento, da scritti ebraici e da iscrizioni egiziane si desume che gli Ebrei sono stati grandi viticoltori e non meno bravi assaggiatori, ma da loro non ci e’ pervenuta neppure una scheda. Non voglio in tal modo percorrere luoghi comuni riferendomi alla parsimonia di questa brava gente, quanto, piuttosto, ricordarne il difetto di lungimiranza nel trasmettere una parte indubbiamente significativa della loro memoria storica. E’ altrettanto chiaro che vado per estremi; eppure il vino, come noi, oltre le infinite forme della fisicita’ ha un’anima, che poi e’ l’anima della gente, di tutta la gente, di chi lo alleva e di chi, bevendone, senza accorgersi scrive pagine della propria storia.
Anche il vino ha un’anima
E’ la capacita’ di introspezione del vino, la forza della sua interiorita’ che in fondo dobbiamo conquistare. Intermezza spesso Luigi Veronelli: Çin ogni bicchiere di vino c’e’ il racconto delle fatiche del contadinoÈ. Mi rendo conto cosi’ che e’ del racconto che dobbiamo impadronirci, dilatarne la magia, farne messaggio e dargli ali per volare. Da adoratore del vino, sotto mentite ma pubbliche spoglie di sommelier, mi rendo conto della scomoda attualita’ di una proposta di recupero di questa figura nel suo aspetto moderno, e cioe’ quello di “comunicatore”. Del resto non e’ da poco l’opportunita’ di affiancare il vino ad altre figure di pari rilevanza, racchiudendole tutte in un contesto caratterizzato dalla fase critica di sviluppo del mercato, dalle ultime crociate di euromoralismo e dall’immenso patrimonio culturale che il mondo del vino invece racchiude e che necessariamente occorre diffondere per favorirne un sereno rapporto attraverso un corretto consumo. E’ innegabile che uno scenario caratterizzato da un corretto lavoro di informazione possa abbattere alcune barriere strategiche e favorire l’entrata del vino nelle abitudini quotidiane del consumatore. Una politica di sviluppo che stimoli nuove iniziative, linfa dei processi imprenditoriali ma anche culturali, assicurerebbe una piu’ stabile permanenza del vino sul mercato.
Il sommelier
Una revisione quindi non solo della figura, ma anche del ruolo del sommelier, navigatore dell’universo del consumatore globalizzato che, come improvvisamente uscito dal coma, riprende a manifestare chiare esigenze di informazione e di riappropriazione di usi e tradizioni alimentari proprie, comprese quelle legate al consumo del vino. In altre parole, e’ opportuno, in questa fase cosi’ delicata e imperscrutabile dell’economia, corrispondere a due definite istanze: favorire relazioni produttive tra il mondo del vino e della comunicazione e, nel contempo, arricchire la figura del sommelier di competenze innovative, attuali. Messaggeri e percio’ comunicatori, come nel mondo moderno si recita: questo il futuro verso il quale traguarda il “totem sommelier”, temuto e ignorato allo stesso tempo, con un prossimo scenario da decidere, da definire, da disegnare. In questi anni, le aziende hanno speso miliardi per le loro strutture, hanno anche plasmato vini meravigliosi considerando tutto questo un punto di arrivo, come rapiti da una sorta di autocontemplazione. Non hanno fatto nulla per informare il consumatore e non hanno fatto nulla per educare il venditore che deve sapere cosa va a vendere.
I consumatori
E allora una politica di comunicazione ad ampio spettro e’ il cardine dell’orientamento. Occorre puntare si’ sulla formazione dei sommelier, ma non piu’ solo per l’esclusiva riappropriazione e valorizzazione della sensorialita’. Bisogna guardare con estrema attenzione al dialogo con le aziende e al contatto con la crescente fascia di mercato costituita da consumatori occasionali che hanno una buona “percezione” complessiva del prodotto ma scarsissima conoscenza delle sue peculiarita’. Il mondo del vino deve insomma imparare a comunicare. Improrogabilmente, deve impegnarsi a diradare la nebbia che avvolge il mercato e che ne fa un settore per soli esperti. Deve ripensare i linguaggi e riorganizzare per i consumatori le informazioni sulle caratteristiche dei prodotti. Sta in ogni operatore dell’intricato e intrigante mondo dell’enogastronomia ricercare nel profondo cambiamento delle abitudini alimentari e dello stile di vita i motivi del caos, creare la “santa alleanza” tra produttori-distributori e consumatori, sollecitare piani di investimenti pubblicitari che partano dal rilancio dell’immagine dei marchi, percorrere i media in modo ragionato e non banalizzante e conferire, infine, un valore credibile alla domanda attraverso un’offerta qualificata e completa. E’ forse tanto, o forse ancora troppo poc e’ molto probabile, pero’, che valga la pena voltare pagina e scrivere il seguito della storia.
La verita’ non e’ una cosa con cui scherzare.
E nemmeno il vino, testimone silenzioso degli incontri importanti
In vino veritas. Mi gira in testa da un po’, questa frase; da quando ho cominciato a riflettere sul tema di “vino e comunicazione”. Ed e’ come se mancasse un nesso, un collegamento diretto, fra quello che penso veramente e quello che invece, nel mio progetto originale, avrei voluto scrivere. Avrei voluto scrivere. Ma forse non e’ troppo tardi, per recuperare il filo del discorso, cominciare subito a parlare del flusso di comunicazione che si esprime attraverso il vino, che proprio nel vino trova il suo pretesto di esistenza.
Io avrei voluto scrivere di letteratura dei paesi del sud. Della cucina e della loro tradizione alla convivialita’. Avrei voluto fare un giro fra i villaggi senza nome del centro america, salire e scendere dalle strade curve delle Ande su un furgone senza piu’ fiato, avrei voluto sentire i passi del popolo di mais che cammina, in spazi deserti, seguendo una signora dalla lunga gonna e con un bambino nella borsa. E poi fermarmi, mangiare qualcosa e bere una di quelle bevande forti e zuccherate adatte a quel clima, energia preziosa per le fatiche della terra. Avrei voluto, ma ho subito capito che il vino non avrebbe trovato uno spazio abbastanza ampio dove stare, perche’ e’ una prerogativa solo di alcuni paesi, di poche persone davvero, a confronto con tutte le popolazioni del mondo. E ci dev’essere una ragione per questo. Perche’ in certe zone impervie si continua a coltivare la vite, perche’ per alcuni e’ un vezzo, una tradizione piu’ che un fatto commerciale. E una ragione per spiegare come mai il vino di sapore contadino, e’ ora diventato uno snobismo da ricchi, un fatto di cultura o di contesto sociale. Allora sono tornata nel Mediterraneo, con solo una rapida concessione al profumo di oceano del Bordeaux, e sono rimasta a passeggiare tra Francia e Spagna, per poi scendere in Italia e godere di un rosso piemontese, di un bianco forte del sud, di un vino bianco fresco dall’odore di zolfo, nel caldo pomeriggio estivo, vicino al mare.
La verita’ in un bicchiere
E allora ho capito di cosa volevo davvero parlare, svelato l’arcan volevo parlare di verita’ e di sentimenti. Di gioia e di dolore, di presente e di futuro. Il passato, lo ometto per scelta, per vilta’. Perche’ chi ama il vino sa che dentro la bottiglia risiede l’anima di un incontro. Nel vino buono, le forti passioni e i dolori si liberano senza paura; un vinaccio e’ invece l’inizio di un discorso spiacevole, in cui si mente per proteggere se stessi. E lascia amarezza, in tutti i sensi. Una birra e’ un incontro informale, una risata leggera da bar, una stretta di mano che se ne va, come una promessa. E i sentimenti, i rapporti cambiano quando si beve con qualcuno, perche’ e’ in gioco l’anima, la verita’. Adesso, finalmente, e’ tutto chiaro. Di questo io volevo dire. La verita’. Veritas. Quello che conta davvero, comunicando, non e’ il vino, ma la verita’. Il vino e’ soltanto uno strumento, un interludio fra il prima – l’aspettativa – e il poi, cioe’ quello che cambiera’ nel futuro. Il vino e’ il catalizzatore della verita’, ma non la rende obbligatoria.
E se qualcuno ti mente, lo scopri meglio dividendo una bottiglia; lo vedi subito l'”astemio della verita’”. E allora ci stai piu’ attento, non gli porgi piu’ il bicchiere. Il vino e’ sano, il vino e’ vero. E bisogna rispettarlo. Perche’ chi dice la verita’ senza paura, alla fine vince. Come in un vecchio film.
Una coppa di vino e’ sufficiente per acuire le nostre sensazioni, interne ed esterne.
Che vanno diritte al cuore
Di grazia, perche’ Bacco ha sempre, come un giovinotto, il volto rubicondo e bionda la lunga chioma? La ragione si e’ perche’ passa tutta la vita discervellato ed ubbriaco nei conviti, nelle danze, nelle feste, nei giuochi, ed aborre ogni benche’ minimo commercio con Pallade”, ci racconta Erasmo da Rotterdam nel suo celeberrimo Elogio della Pazzia. E la storia della letteratura e’ stata particolarmente feconda nel tramandarci esempi dei benefici effetti del vino, non solo sul nostro umore, ma anche sulla nostra predisposizione a comunicare e a interagire con il prossimo. Flaubert, a proposito di banchetti, diceva che “vi regna senza fallo la piu’ franca cordialita’” e non e’ azzardato attribuire al cibo, e naturalmente alle bevande che lo accompagnano, la proprieta’ di influire positivamente sul nostro umore.
Ma il vino non e’ solo l’artefice delle nostre brillanti conversazioni. E’ egli stesso un grande comunicatore. E’ una sorgente di sensazioni non legate unicamente al piacere del palato, ma anche a una pioggia di emozioni difficilmente descrivibili che ci danno un diffuso stato di piacere. Il suo gusto e’ in grado di provocare sensazioni repentine legate non solo a stati d’animo, ma anche alla nostra percezione dell’ambiente; evochiamo una melodia, un paesaggio suggestivo, una situazione tranquilla o burrascosa, sensazioni tanto diverse tra loro ma sempre estremamente appaganti.
Grande potere evocativo
Ed il vino non comunica solo con il sapore ma anche con il colore ed il profumo. Cosa c’e’ di piu’ variegato dei profumi che ci dona una coppa di vino? Chi non e’ catturato dalla molteplicita’ degli aromi che il vino ci trasmette? Cio’ che per alcuni e’ “odore” di vino, e’ un intero mondo di aromi. Aromi capaci di comunicarci la molteplicita’ della realta’ che ci circonda. Al punto che per poterlo descrivere siamo dovuti ricorrere all’aiuto della natura e delle opere dell’uomo. Il linguaggio che descrive l’aroma del vino in realta’ ci racconta del nostro mondo; e’ un caleidoscopio di fiori, frutti, minerali, cuoio.
E con che forza si appropria dei nostri ricordi, facendoci ripercorrere, anche involontariamente sentieri della nostra mente che chissa’ da quanto tempo non battiamo piu’. Nel vissuto di ognuno di noi c’e’ e sempre ci sara’ anche quel benessere non solo fisico che la capacita’ del vino di comunicare ci ha donato. Poveri astemi!
Una linea sottile segna la differenza tra l’essere e l’apparire.
Una linea tracciata dalla comunicazione
Un bel di’, un giornalista che si trovava a passeggiare tra i campi si fermo’ a scambiare due chiacchiere con un contadino che teneva al pascolo due mucche, una bianca e una nera. Il giornalista, quasi per cortesia, chiese qualche informazione sui due animali.
Il contadino, indicando la mucca bianca, disse: “vedete quella mucca? Tutte le altre danno dieci litri di latte al giorno… ebbene, quella riesce a farne venti!”
E il giornalista : “e quella nera?”
“Anche quella nera! – disse il contadino – … e vedete quella mucca bianca? Tutte le altre lavorano dieci ore al giorno… ebbene, quella lavora per venti ore!”
Il giornalista espresse il proprio educato stupore: “caspita, e quella nera?”
“Anche quelle nera!” Rispose laconicamente il contadino che, imperterrito, aggiunse : “vedete quella mucca bianca? tutte fanno un solo vitello a ogni parto, ebbene quella bianca ne fa due!”
“E quella nera?” chiese ammirato e un po’ stordito il giornalista.
“Anche quella nera!”
“Ma… allora, scusi – fece notare il giornalista – se fanno le stesse cose, perche’ parla con entusiasmo della mucca bianca e tralascia quello che fa la nera?”
“E’ semplice- ribatte’ il contadino – quella bianca e’ mia!”
“E quella nera ?”
“Anche quella nera!”
A questo punto, immagino che stiate pensando di rileggere il titolo dell’articolo e, magari, vi state chiedendo il perche’ di questa storiella, forse a voi gia’ nota… Ma provate a sostituire alla mucca bianca il vino francese e a quella nera il vino italian non ci si trova forse calati in un mondo in cui essere e apparire sono sempre e soltanto i risultati di pura e semplice comunicazione?
Tra essere e apparire c’e’ di mezzo la comunicazione
Non si sa bene in che modo la mucca bianca sia riuscita a comunicare qualcosa in piu’ al contadino… forse con il suo colore o forse con qualche sguardo particolarmente dolce. Comunque sia, un risultato di certo lo ha ottenut farsi notare. Del resto, tutta la fenomenologia della vita relazionale e sociale potrebbe essere vista in termini di “comunicazione”. La comunicazione, nella sua definizione piu’ semplice, e’ un trasferimento di informazioni, attraverso un canale o un mezzo, da una sorgente a un destinatario.
La comunicazione di massa
Al vertice, c’e’ la comunicazione di massa, lo specchio e il veicolo di relazioni capillari e dinamiche che si stabiliscono e si instaurano in societa’ particolarmente progredite. I problemi connessi con il suo sviluppo e i suoi effetti, essendo straordinaria la sua capacita’ di creare sempre nuovi miti (o di rafforzare i preesistenti), nuovi atteggiamenti e mentalita’, sono molti e complessi e si evidenziano in una proliferazione esasperata di messaggi appositamente elaborati dai cosiddetti “persuasori occulti”. Il fenomeno, per sua natura psicologico perche’ comprende tutti i rilievi del comportamento umano, trova la sua massima espressione non soltanto nella scelta preferenziale dei prodotti da parte dei consumatori, ma nella stessa azione di questi verso nuovi e insospettati bisogni. Tra gli aspetti negativi di questo giungere in zone umane solitamente rispettate dalla convenzione sociale, si colloca certamente la subdola pubblicita’ subliminale, addirittura capace di parlare al solo subconscio. C’e’ pero’ da valutare positivamente lo sviluppo tecnologico e ancor piu’ la maggiore apertura verso l’informazione, la conoscenza artistica, gli autentici diritti della liberta’.
I comunicatori
Per ritornare su un piano piu’ intimo, bisogna anche dire che ognuno di noi gioca un proprio ruolo ben preciso, inserendosi in uno schema di massima, studiato dallo Schramm, e ponendosi nella direttrice di “comunicatore a responsabilita’ sociale”. Il comunicatore offre al destinatario, qualunque sia il linguaggio della comunicazione – economico, sociale o culturale – un messaggio, certo dopo averlo pulito da interferenze e arricchito con la propria passione, ma lasciandolo sempre onesto e vero. E’ forse questa la sola possibilita’ di elevare un “mestiere” al livello di “professione” e provare, da piccoli, a dire qualcosa in un mondo dove tutto sembra gia’ detto dai grandi. E, comunque, non possiamo e non dobbiamo limitarci alla trasmissione di semplici informazioni codificate perche’ e’ evidente che l’ambiente che ci circonda e’ percorso in continuazione da flussi di messaggi assolutamente non codificati che vanno ad assumere comunque un ruolo importante nell’operazione cognitiva di interpretazione e organizzazione dell’informazione.
Apparire non basta
Forse la figura del sommel’er come esperto in un ristorante, dove peraltro ne fanno per tanti motivi tranquillamente a meno, in modo particolare dalle nostre parti, non e’ piu’ sufficiente. Quella figura bastava appena per apparire, per essere ci vuole molto di piu’. Occorre che si sia investiti sempre di piu’ della carica di messaggeri, di portatori di cultura. Per fare cio’, o almeno per provarci, dobbiamo uscire dal rigido sistema di trasmissione non modulabile e adattarci ai diversi contesti delle situazioni. La didattica, quella nuova, quella che anche tra qualche difficolta’ e resistenze si va sempre piu’ diffondendo anche tra i nostalgici, forse e’ la nostra arma vincente, la nostra vera possibilita’ di dare e avere, di studiare la reazione di ritorno (feedback) e ripartire con situazioni dinamiche di aggiustamento. Insomma, non basta piu’ guardarsi sotto il mero profilo scenografic e’ necessario rinnovarsi per affrontare il banco di prova del terzo millennio. I produttori ci diano fiducia… in fondo noi perseguiamo con loro, o almeno con molti di loro, lo stesso scopo. Noi non vogliamo essere delle semplici apparizioni, e certamente non siamo fantasmi. In effetti, soltanto loro non aspirano affatto ad essere… a loro basta apparire.
Un viaggio tra le curve della terra e della memoria
Era quasi settembre, un sabato pomeriggio tardi, e camminavo tra i filari di grecanico, nel piccolo vigneto di Kelbi che il nonno compro’ nel ’46 col ricavato di quel buon raccolt il primo dopo la guerra che lo aveva visto richiamato, adulto, lui che da ragazzo del ’99 aveva fatto la prima sul Monte Grappa. C’erano una volta vigne di inzo’lia e grillo su quel timponello, basse, ad alberello.
Ce ne stavano ottocento in tummino, col sesto antico. E l’uva era dolcissima, la buccia degli acini arrossata dal sole tardo-estivo. Papa’ me ne portava a ricioppi, insegnandomi a mangiarla – insieme al tumazzo oleoso e pepato – col pane di casa che sua madre faceva con la stessa impareggiabile maestri’a con cui sapeva ‘ncucciari, grosso, il cuscus.
Pensavo a quei sapori irripetibili, a quegli orizzonti non pretenziosi della mia infanzia, mentre ero intento a scostare le pampine per individuare i peduncoli, per scoprire i grappoli e destinare cosi’ il giorno di possibile inizio. Non faceva molto caldo, annata davvero anomala. Respiravo a pieni polmoni e guardavo con gli occhi lucidi l’oceano verde di quella dagala: lo stesso scenario dei miei pantaloni corti. Solo i casotti, purtroppo, erano piu’ diroccati, a causa dell’abbandono subi’t dal tetto di qualcuno ora mancavano pure le ciaramire. Ma la magia del sito era rimasta intatta, medesimo l’ineffabile rumore del silenzio. Si’ – pensavo – c’e’ la spalliera adesso, col fil di ferro e i pali in cemento. Le cartedde sono di plastica ora, non piu’ di canne e vimini. Ma la terra – notavo – ha lo stesso intenso color vinaccia. E il sole sta andando a dormire sempre dietro al gelso…
Il trillo del telefonino mi sorprese mentre ero assorto, sospeso in quella irreale dimensione spazio-temp fra il ricordo vivo dell’eta’ innocente e l’immersione totale in un paesaggio che sentivo mio habitat perenne. Mi parve quasi una profanazione, una indebita interruzione dell’incantesimo regalatomi da quel tramonto di fine agosto con le nuvole striate di grigio e arancione, fra i tralci di damaschino della vigna mastra. Seccato, trassi il cellulare dalla tasca posteriore dei jeans sdruciti e premetti forte sulla tastiera per rispondere. Riconobbi subito amico u’coccanu (timbro vocale) mentre, ormai rassegnato a dovermi scuotere, estraevo l’antennino. Ne indovinavo le tempie canute anzitempo e il naso aguzzo, dopo il “Pronto”. Era proprio il mio giovane editore. Ma la voce sembrava quella di suo padre… “Perche’ non scrivi un libro sui nostri vini ? – disse – “Ma non mi servono statistiche o cifre, ne’ previsioni di mercato – continuo’, senza darmi il tempo di assentire, quasi fosse anche lui gia’ sintonizzato su quel mio momentaneo stato di estasi. “Voglio pagine alla tua maniera, un racconto dei sentimenti che ti prendono mentre cammini tra i filari. Cerca anche di rammentare come si viveva una volta nelle nostre campagne. Scava fra le emozioni e le generazioni che stanno dietro una d.o.c.”. Sentii distendersi in un sorriso le mie ciglia gia’ aggrottate per il fastidio che mi aveva fatto paventare il primo stridulo suono di chiamata. “Sappi che un giorno o l’altro lo pubblicheremo. Mandami quaranta-cinquanta cartelle. Ma ti raccomando di quelle tue, scritte col cuore”. “Ci provo” – ebbi appena il tempo di dire. Con l’intima certezza di stare vivendo un impagabile deja-vu’. “Hai tempo fine alla prossima settimana” – taglio’ corto – “Aspetto il tuo plico. Ciao”.
Che strana la vita – pensai mentre riguardavo la trazze’ra e mi avvicinavo alla macchina. Il cielo volgeva all’imbrunire e girai la manopola delle luci di posizione. Raggiunta la strada asfaltata, non avevo alcuna voglia di accelerare, gustarmi ancora voluttuosamente quella incredibile coincidenza, quella fortunata telepatia appena vissuta. Fra palpito, memoria e immaginazione. Sentivo gonfiarmi il petto per l’orgoglio delle mie radici umili, rurali. Mai – mi dissi – le ho rinnegate, anzi cerco sempre di meritarle. Sorpassai alcuni strani veicoli, mentre ritornavo a casa: procedevano lenti, sembravano carretti con la tine alta di legno – strabocchevole di racina – trainati dal mulo. Ma lo spechietto retrovisore li faceva scomparire, come se si fosse trattato di miraggi… Mi parve anche che stessi dirigendomi, piuttosto che in citta’, verso una contrada vicina ove c’e’ ancora la casa dei nonni con il magazzino accanto, le botti di castagno e di rovere su file diverse. Arrivai li, infatti. E vidi subito un bambino dentro al paramentu. Aveva di gomma gli stivaletti a mezza gamba e spingeva felice l’uva verso la pigiatrice gia’ a trimogna. Mi assomigliava moltissim non poteva che essere mio figlio. E il primo carico della vendemmia era gia’ mosto! Fantastico! Ma quanto tempo era trascorso? Gia’ otto – dieci giorni da quella telefonata fra le vigne… O, forse, ero tornato indietro di trent’anni?…
Glossario
timponello: piccola altura
tummino: misura agraria 2093 mq del trapanese
ricioppi: parti o pezzetti sul grappolo
tumazzo: formaggio
‘ncucciari: unire, raggruppare, amalgamare
pampine: foglie di vite
dagala: vallata
ciaramire: tegole
cartedde: ceste di vimini e canne
mastra: principale
tine: tino
racina: uva
paramentu: luogo dove si pesta l’uva
trimognia: cumulo
Nell’antichita’, il vino e’ spesso visto come fonte di ispirazione.
Ma c’e’ di piu’: il vino e’ mezzo di liberazione, di sincerita’, di purezza
La cultura popolare fa del sobrio una sorta di persona da guardare con sospett “chi non beve tradisce” recita un antico proverbio meridionale. Il bevitore moderato rispecchia una saggezza che spesso e’ sinonimo di mediocrita’, di accomodamento conformista, di moralismo piccolo-borghese. La potenza del vino circola intorno all’ebrieta’ come momento di invasamento fecondo, di mania poetica e di liberazione dalla normativa ossessiva del gruppo.
La potenza del vino
Dioniso, ad esempio, fonda le tecniche di possessione poetica attraverso l’orgia del vino. Le antiche feste a lui ispirate, ricordate pallidamente fino a qualche decennio fa nei nostri carnevali, sono il momento essenziale di un capovolgimento del mondo attraverso l’ubriachezza. Ma di quale vino parliamo? Non certamente, se ci riferiamo al mondo antico, ai mescolamenti immondi che Catone insegnava a preparare in alcune ricette di grande diffusione. Ne’ e’ da pensare che il vino dei nostri nonni fosse puro succo fermentato, esente da additivi. Ogni contadino enologo sapeva perfettamente che per conferire al vino maggiore corposita’ e colore, bastava aggiungere albume d’uovo, sangue caprino o bovino, terre argillose e scagliola. Certo, siamo ben lontani dalle alterazioni, inquinamenti vari e usi incontrollati di autentici veleni che si sono avuti con le recenti e nuove tecniche vinicole della societa’ dei consumi… In ogni caso, rarissimamente il vino e’ stato purissimo in senso assoluto. La purezza e’ forse solo nel vino delle metafore, che sollevano una fra le piu’ antiche bevande umane a segno di arcani che toccano il destino dell’uom il vino che, nella benedizione del Sabato, gli ebrei bevono per confermare la solidarieta’ del gruppo e il suo cammino nella speranza; il vino che, nella cena di Gesu’ di Nazareth, e’ fatto sangue e redenzione.
Avevo appena deterso la mia fronte con un kleenex e deglutito svogliatamente un sorso d’acqua ormai caldo – Bari a luglio e’ veramente invivibile -quando incrociai con lo sguardo le parole con cui Plinio parla delle donne:
L’ubriachezza insegna di per se’ la libidine.
Madida di sudore, non solo per il caldo ma anche per la forza delle parole lette, ho continuato a leggere cio’ che Plinio e altri studiosi piu’ o meno recenti raccontavano a proposito. Ricerche utili per la mia tesi di laurea, s’intende, ma in quel momento cio’ mi sfuggiva. Come donna che si prepara al 2000 e che sorseggia del buon vino, mi ha coinvolto moltissimo sapere come se la cavavano le mie antenate al cospetto del frutto di Bacco.
Le donne e il vino
Ahime’ ne uscivano con le ossa rotte. Infatti sorseggiare una coppa di vino poteva essere letale. L’unica possibilita’ di bere vino si presentava durante un particolare rituale denominato della “Bona Dea” in cui il vino era mascherato da falso nome (lo chiamavano latte) ed era offerto in “vasi di miele”. Perche’ tanto divieto? Per una ragione molto semplice: il “vino vero” dei Romani conteneva il virus, termine che indica sia il sapore forte del vino che il liquido seminale maschile. In altre parole: il vino era forte e molto maschio, quindi incompatibile con la natura femminile. Ma le giustificazioni non si fermano qui. Sentite questa! Si diceva che il vino portasse a vaticinare, attivita’ riservata ai sacerdoti (maschi). A tutela di questo divieto c’era il Ius osculi, cioe’ il diritto riservato ai parenti piu’ stretti di baciare una donna. Era considerato un escamotage per controllare se questa avesse bevuto. A voi ogni tipo di commento.
La paura dell’irrazionale
La verita’, come sempre, era una sola: il vino portava a una certa disinvoltura nel dire, soprattutto per le donne, piu’ vulnerabili al fascino del frutto di vite, e la paura che potessero diffondere verita’ scottanti per molti uomini potenti era fortissima. Le uniche donne immuni da questo pericolo erano le ete’re. Definire la loro attivita’ come prostituzione fa loro un torto grande quanto una casa. Erano donne bellissime e colte che, unendo queste qualita’ al fascino femminile, svolgevano attivita’ di PR ad altissimi livelli. Infatti sponsorizzavano carriere militari, determinavano accordi politici e partecipavano attivamente alla vita di Palazzo. Per cui la possibilita’ di sorseggiare una coppa di vino con tranquillita’, assumeva un significato particolare perche’ era l’atteggiamento sociale che manifestava tutto questo.
Il risveglio
Lo sbattere di una delle pesanti porte della biblioteca mi fa destare da un sogno profondo e intenso. Solo dopo qualche secondo mi accorgo che le parole degli storici sulle donne e il vino mi avevano completamente presa e mi avevano fatto perdere il motivo fondamentale di quella ricerca, cioe’ la mia tesi di Laurea. Resto immobile a fissare le pagine ingiallite dei testi tentando di rituffarmi nell’Antica Roma, ma non ci riesco, quella magia di immagini fatte di vino, donne e uomini potenti e’ completamente svanita. Durante la strada del ritorno a casa ripenso a cio’ che ho letto e pian piano si insinua dentro la mia testa un presentiment i prossimi sorsi di vino avranno un retrogusto piu’ forte e intenso. Avranno il profumo di donne d’altri tempi!
Avevo appena deterso la mia fronte con un kleenex e deglutito svogliatamente un sorso d’acqua ormai caldo – Bari a luglio e’ veramente invivibile -quando incrociai con lo sguardo le parole con cui Plinio parla delle donne:
L’ubriachezza insegna di per se’ la libidine.
Madida di sudore, non solo per il caldo ma anche per la forza delle parole lette, ho continuato a leggere cio’ che Plinio e altri studiosi piu’ o meno recenti raccontavano a proposito. Ricerche utili per la mia tesi di laurea, s’intende, ma in quel momento cio’ mi sfuggiva. Come donna che si prepara al 2000 e che sorseggia del buon vino, mi ha coinvolto moltissimo sapere come se la cavavano le mie antenate al cospetto del frutto di Bacco.
Le donne e il vino
Ahime’ ne uscivano con le ossa rotte. Infatti sorseggiare una coppa di vino poteva essere letale. L’unica possibilita’ di bere vino si presentava durante un particolare rituale denominato della “Bona Dea” in cui il vino era mascherato da falso nome (lo chiamavano latte) ed era offerto in “vasi di miele”. Perche’ tanto divieto? Per una ragione molto semplice: il “vino vero” dei Romani conteneva il virus, termine che indica sia il sapore forte del vino che il liquido seminale maschile. In altre parole: il vino era forte e molto maschio, quindi incompatibile con la natura femminile. Ma le giustificazioni non si fermano qui. Sentite questa! Si diceva che il vino portasse a vaticinare, attivita’ riservata ai sacerdoti (maschi). A tutela di questo divieto c’era il Ius osculi, cioe’ il diritto riservato ai parenti piu’ stretti di baciare una donna. Era considerato un escamotage per controllare se questa avesse bevuto. A voi ogni tipo di commento.
La paura dell’irrazionale
La verita’, come sempre, era una sola: il vino portava a una certa disinvoltura nel dire, soprattutto per le donne, piu’ vulnerabili al fascino del frutto di vite, e la paura che potessero diffondere verita’ scottanti per molti uomini potenti era fortissima. Le uniche donne immuni da questo pericolo erano le ete’re. Definire la loro attivita’ come prostituzione fa loro un torto grande quanto una casa. Erano donne bellissime e colte che, unendo queste qualita’ al fascino femminile, svolgevano attivita’ di PR ad altissimi livelli. Infatti sponsorizzavano carriere militari, determinavano accordi politici e partecipavano attivamente alla vita di Palazzo. Per cui la possibilita’ di sorseggiare una coppa di vino con tranquillita’, assumeva un significato particolare perche’ era l’atteggiamento sociale che manifestava tutto questo.
Il risveglio
Lo sbattere di una delle pesanti porte della biblioteca mi fa destare da un sogno profondo e intenso. Solo dopo qualche secondo mi accorgo che le parole degli storici sulle donne e il vino mi avevano completamente presa e mi avevano fatto perdere il motivo fondamentale di quella ricerca, cioe’ la mia tesi di Laurea. Resto immobile a fissare le pagine ingiallite dei testi tentando di rituffarmi nell’Antica Roma, ma non ci riesco, quella magia di immagini fatte di vino, donne e uomini potenti e’ completamente svanita. Durante la strada del ritorno a casa ripenso a cio’ che ho letto e pian piano si insinua dentro la mia testa un presentiment i prossimi sorsi di vino avranno un retrogusto piu’ forte e intenso. Avranno il profumo di donne d’altri tempi!